CRONACHE PRECARIE di Greta Rosso (Aìsara, collana Yakamoz)

La poesia che Greta Rosso incide col fuoco nella sua raccolta Cronache precarie penetra sotto pelle come un’iniezione di adrenalina mista a curaro, in grado di far elettrizzare ogni singola cellula oppure di paralizzare nell’attimo istantaneo dei versi: “Stabilire un’età ragionevole per il decesso. / Lasciare la camera in ordine, / possibilmente il letto rifatto” (Senza progetto. II). Un’incredibile potenza evocativa scevra da trucchi ad effetto, quasi una post-poesia, in perfetta ragion d’essere in questo scorcio di millennio appena iniziato, che viene in qualche modo stigmatizzata già dal titolo. Certezze e incertezze relative, cangianti, confluite nella pagina come elastici drammi dell’odierno sentire: “Il mio ciclope ha un occhio solo che piange sangue / Le cose possono essere il peggior tradimento alle cose stesse / Io stessa non so porre fine al mio turbolento malumore” (Universare) e ancora: “Quando giocavo a solitario baravo / seguivo da sotto fogli sottili i contorni dei volti / la notte mi cingevo la vita col mio braccio sconosciuto / mi davo conforto per i soli miei lividi / il mio più grande desiderio era svenire” (Storia isteria. II). Greta Rosso scrive senza pietà, senza freni inibitori e, proprio per questo, tocca le corde di un dire oltre le righe, che non conosce recinti ingabbianti e non vuole conoscerli. Poesia corporale oltre che mentale, slegata da regole e stordente, che trascina il lettore verso antri sperimentali: “il tempo non esiste / è fermo / non c’è mai stato” (Senza progetto. 6). Una sensazione di strana inquietudine percorre il lettore che si cimenta tra le pagine di quest’opera, come se un moto di surrealtà quotidiana (e il fatto di essere quotidiana si rivela tutt’altro che rassicurante) potesse tagliare trasversalmente le umane esistenze, donando a queste ultime quel tocco di follia che, non fosse abbastanza di questi tempi, restituisce un universo roteante e indecifrabile, intuibile soltanto per maldestri tentativi. Tuttavia, le liriche dell’autrice non sembrano rassegnati epitaffi alla vita, bensì parole che pungolano, talvolta sfiorando il sarcasmo, affilate come lame: “Il segreto sta nell’idratazione. / Ti stupiresti di quante gocce vuote cadono nelle comuni conversazioni / gocce che cadono a terra e sparita ogni traccia di sorgente” (Piccolo requiem per vapori). La Rosso non ha paura di guardare nell’abisso – con buona pace di Nietzsche – o meglio, nei tanti abissi che, giocoforza, un immenso Universo ci propina. Non ci è dato sapere se l’abisso guarderà davvero dentro di noi, ma forse l’abisso è solo un punto qualsiasi dello spazio, un punto che noi tocchiamo di passaggio per poi togliere il disturbo: “Come si scrive un inventariato? Te lo dico io: / si scrive con la lista precisa dei corpi che siamo stati / delle  mani che abbiamo sfiorato per errore / dei distacchi di cute che ci hanno resi più terrigni / delle bocche indicibili, notturne, a progetto di parole” (Racconti in forma di cinque righe. XVIII). uQuaQ Tra l’enormità di raccolte di versi sciorinata dall’odierna scena editoriale, Cronache precarie si distingue per originalità e spessore, audacia e ricercatezza espressiva; un libro dai connotati carnali in questo nostro mondo post-industriale. Come dire: la carne e Moloch.

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