Il pesce di vetro


Il pesce di vetro vacillava pericolosamente tra le mani del piccolo Gabriele. Non fu una sorpresa per nessuno il rumore di rotto proveniente dal salone, eppure ci fu la condanna inappellabile del nonno, della nonna e della prozia. Lorenzo Tenco aveva fatto il callo a questo genere di cose. Ogni festa era tempesta. Andare dai suoi per Natale o per Pasqua equivaleva a scannarsi per il resto dell’anno. Gabriele avrebbe combinato qualche guaio e suo nonno gli avrebbe detto che quella non era educazione. O meglio, lo avrebbe detto a Lorenzo. Ché lui con i suoi figli ci era riuscito a farli uscire cristiani. Perché Raffaele Tenco aveva fatto la guerra, era stato prigioniero degli inglesi in Africa e sapeva tutto della vita. Rosaria gliel’aveva fatto capire che in quella casa non erano ben accetti, ma Lorenzo non aveva mai dato retta alla moglie, in fondo si trattava sempre di suo padre e sua madre.
Lorenzo seguì le orme del padre, che dopo la guerra aveva fatto il tranviere. Negli anni sessanta mezzo paese era impiegato nei trasporti. All’epoca bastava una cassetta di olio o di vino, o magari di friselle per avere un posto di lavoro.
L’abitazione di Raffaele Tenco era adiacente alla stazione tranviaria di Milano. Casa e bottega, come si suol dire. Al mattino, non doveva far altro che aspettare il caffè che sua moglie Giuseppina gli preparava ed era pronto per una giornata da capo tranviere.

Gabriele era il primo nipote dei Tenco. Un bel bambino in carne e vivace. Non stava fermo un attimo.

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