IL RITORNO di Dora Elia (terza e ultima parte)
Care amiche, cari amici. Di seguito l'ultima parte del racconto "Il Ritorno" di Dora Elia.
Vi ricordiamo che giovedì prossimo (31 gennaio) avremo una bella sorpresa e un gradito ritorno su Linea Carsica.
Vi ricordiamo che giovedì prossimo (31 gennaio) avremo una bella sorpresa e un gradito ritorno su Linea Carsica.
Buona lettura.
Sono ripartita il giorno dopo.
Sono ritornata a Feltre con il
mio paese stampato dentro, come una cartolina da inviare a chi è lontano e
vuole che gli racconti i tuoi natali, l’aria che ti soffiava nei polmoni da
bambina.
Sono di nuovo in Veneto con il
gusto del mare di Roca sul palato appena bruciato dal lattemiele per combattere
il freddo dopo la neve.
Di Melendugno ho portato con me i
sorrisi di chi non ha mai smesso di volermi bene, di chi mi ha rivelato nelle
mail che l’affetto non muta a distanza di chilometri, che l’amicizia è uno
scrigno prezioso per il quale si lotta contro chi cerca di appropriarsene
meschinamente.
Ho rubato anche la vista degli
ulivi secolari nodosi come le mani dei contadini anziani che li hanno potati,
curati, svuotati dei frutti nel susseguirsi dei calendari che si possono
leggere nella mappa delle rughe che solcano i volti.
Gli ulivi in periferia, restati
tali e quali, uno schiaffo ai palazzi sorti in centro, ai mattoni sulle aiuole
che prima erano in terra battuta, ai cancelli che hanno sostituito i muretti a
secco, senza pudore.
Ho infilato nella valigia anche i
sapori dei dolci alla crema e del negramaro d’un rosso quasi nero nei bicchieri
trasparenti d’osteria, il viso di mia madre incorniciato d’un bianco di capelli
che è ormai stanca di tingere, gli affreschi dell’abbazia di San Niceta, alle
spalle del cimitero sempre più pieno di gente che conoscevo e che non è più, che dio li abbia in gloria, se ce n’è uno.
Ritornare è stato un viaggio
troppo intenso perché mi aspettavo di ri-scoprire
una terra- la mia- e invece sono finita col ri-scoprire
me stessa, nella solitudine delle strade vuote di notte, nella tenerezza della
mia stanza da letto sempre uguale a se stessa, anacronistica quasi con le mie
foto da liceale e la collezione dei biglietti dei concerti, nella meraviglia
arrabbiata di vedere cambiato un posto che per me è sempre stato sinonimo della
lentezza dei tempi messicani che non mutano le cose, che conservano tutto così
com’è mentre lo hai vissuto da bambina, da ragazza e poi da donna e, perché no,
mentre lo vivrai da anziana con qualche grinza sulla fronte e nell’anima.
Tutto cambia. Anche il mio
piccolo paese e molti di quelli che continuano a viverci, ignari del resto del
mondo che gli gira intorno.
E tutto resta uguale se lo guardi
dal lato sentimentale, dalla scorza dura che nemmeno lo scorrere infinito di
fiumi d’acqua d’esistenza riesce a spazzare via.
Per dirla con semplicità, il mio
migliore amico è sempre, ancora oggi, il mio migliore amico, così il mio bar
preferito- che festeggerà in estate i suoi quarant’anni e forse io ci sarò- è
sempre quello; la mamma è sempre la mamma, lo spicchio segreto di spiaggia che
i turisti non conosceranno mai è sempre lo stesso, così i miei libri nel mobile
del salotto e la strada vecchia che dal camposanto arriva al mare. Le mutazioni
estetiche, cronologiche non hanno cambiato il significato delle cose e delle
persone care, le hanno lasciate uguali al senso, al piacere dello spirito che
non scorda mai il gusto di certe rare emozioni.
E io, intanto non scordo più il
primo amore, è ritornato anche lui, qui nelle mie giornate feltrine.
Si è insinuato nella rubrica di
un cellulare che squilla ogni sera, puntuale, a darmi la buonanotte e dirmi che
è già fantastico l’essersi ritrovati così, l’ultima sera del mio soggiorno
salentino per vie che non saranno più anonime, su scogli meno ispidi perché
sopra c’erano i nostri abbracci.
Si è fatto strada nel profondo di
me che così poco sento di conoscere ora che lui ci si muove dentro con passo
felpato, con fare sornione.
E mi meraviglia la bellezza
dell’attesa di quel bip che mi
racconterà delle sue giornate, che ascolterà cosa ha riempito le mie, l’ansia
del sentirlo desideroso di rivedermi, magari di partire per venire ad
abbracciarmi tra i monti o davanti alla mia stufa a legna che tanta compagnia
mi fa nelle sere d’inverno profumate di zenzero e cannella.
Non una promessa, non una
richiesta di stare insieme, solo l’esserci dell’uno per l’altra e il piacere
che sa dare una voce cara all’altro capo del telefono, tanto che ti parli di
uno scivolone sul ghiaccio, quanto che, dopo mille girarci intorno e resistere
alla mollezza del volersi bene, ti dica che è stato bello quella sera di fronte
al mare e che ce ne saranno altri momenti magici se ci si saprà aspettare.
Ritornare a quarant’anni a parlare d’attesa.
Ritornare a quarant’anni a temere
d’amare.
Ritornare bambini, a
quarant’anni, stupiti del bisogno dell’altro, del desiderio della condivisione.
È tutto surreale, mi toglie il
fiato se ci penso più forte, oltre i rari minuti liberi del giorno nei quali la
mente vola leggera al mio primo uomo e mi fa arrossire.
Avevo perso l’abitudine
all’amore.
Da tempo, infatti, non mi
domandavo più se fosse triste o allegro lavare un solo piatto, un solo
bicchiere, un solo paio di posate arresa ormai all’idea di un solo tovagliolo
sul tavolo e alla presenza sempre più insistente del servizio all’americana
anche per il pranzo, oltre che per la colazione.
La singletudine era da anni la mia costante di vita e non me ne
lamentavo.
Almeno non consciamente.
Ora capisco, invece, che il mio
cuore è ancora pronto a battere per qualcuno, che l’amore ha diritto a
ritornare nelle sue stanze, appendendo nuovi quadri colorati e sistemando
coperte morbide sulle asperità passate perché non pungano ancora.
Ho di nuovo un posto libero
accanto a me, forse per questo, dopo anni, ho rimesso la federa al cuscino
vuoto adagiato accanto al mio sul lettone che inizio a sentire troppo grande
per me sola.
Un posto occupato da una voce al
telefono che viene da lontano a cullarmi i sogni.
Da lontano.
Da mille e più chilometri
geografici e da pagine e pagine di storia passata che si rifà attuale.
Non mi piacciono le minestre riscaldate, però il primo amore non si
scorda mai.
E l’amore, in genere, ha diritto al ritorno, ha le sue leggi
particolari a consentirglielo.
Capisco ora il senso vero di
questo periodare bislacco.
Capisco che, per una volta, posso
contraddirmi e ritornare sui miei passi, dare una seconda opportunità a chi la
prima l’ha bruciata solo perché era l’uomo giusto al momento sbagliato, credere
che il destino possa tessere delle tele magiche per noi che non siano trappole,
ma calde lenzuola sotto le quali è stupendo riposare.
È triste il ritorno, appena lo
mordi e non senti sotto i denti il sapore immaginato e non ti rendi conto che,
come il vino invecchiando, il trascorrere del tempo cambia sfumature.
È triste il ritorno, quando il
campo di papaveri delle tue corse infantili non c’è più, soffocato sotto la
villetta di campagna del notaio.
È triste il ritorno, quando tra i
rovi non trovi più gli asparagi selvatici, anzi, non trovi più nemmeno i rovi
sostituiti dai tralicci dell’illuminazione.
Ma è anche bello, il ritorno,
quando ritrovi i sentieri di campagna dietro il tuo uliveto ancora pieni di
ciottoli e terra battuta, quando il cuore con le iniziali L&D tracciato con l’Uniposca bianco sul palo della luce sotto
casa è ancora lì, un po’ sbiadito ma leggibile al tuo desiderio di
ricominciare.
E al suo occhio che, quando ti ha
lasciato vicino al cancello rubandoti l’ultimo bacio a fior di labbra, lo ha
visto e ti ha chiesto se lo avevi disegnato tu e, con fare di bimba, tu gli hai
strizzato l’occhiolino e sei scappata via, dietro la porta di casa che avresti
voluto non si aprisse, complice nel lasciarti fuori, nella sua auto, tra le sue
braccia.
Se il destino ha scritto qualcosa
per noi, se ha previsto un ritorno, lo ha messo tutto là, in quel piccolo cuore
storto lasciato sul cemento insieme agli altri graffiti d’amore delle amiche,
quando con Vale, Chiara, Roby e Mariarosaria sospiravamo per quei nostri amori
impossibili e scrivevamo canzoni e poesie.
Mi piace pensarlo così il mio ritorno nei tuoi giorni, il tuo nei
miei, come un segno sulla pietra, una piega sul cuscino, un’orma sulla neve o
sulla sabbia che vogliono dire ci sono,
sono passata di qui e voglio che tu lo sappia, che tu lo legga e impari il mio
cercarti senza dirtelo, il mio volerti oltre il tempo e le convenzioni, oltre i
ti amo che non so dire e i ti presento ai miei che non sono più di
moda nel mio modo d’essere attuale.
Mi piace immaginarlo leggero come
un soffio, il ritorno, come i piedi sul viale del porto mentre osservavo,
sorridendo e senza più rabbia davanti al nuovo, il ristorante appena costruito
dove un tempo mi sedevo per studiare Aristotele, alla luce di un lampione,
nelle sere d’inverno mentre tu, forse, poco lontano, gettavi l’amo tra i
branchi di saraghi.
Un segno, un soffio, un ricordo e
la scoperta che le cose cambiano pur mantenendo una timida traccia di ciò che
erano, le persone crescono ma restano vicine al cuore nonostante il mutamento,
i sentimenti si trasformano e ti stravolgono la vita: ecco il ritorno in una
terra o in un amore, come se non si fosse mai partiti, come se non ci si fosse
mai lasciati.
Del resto, le radici non si
recidono, anche se cambiano i rami.
Prima o poi grida il richiamo
alle origini, s’intreccia alla memoria e alla passione.
E il primo amore non si scorda mai.