DEL GATTO DELLE FUSA E DEL SUO STRUSCIAMENTO di Maurizio Leo (Lupo Editore)
Care amiche, cari amici. Ripesco questo post dal blog di Stefano Donno (stefanodonno.blogspot.com). Tratta di una raccolta poetica di Maurizio Leo che ho letto avidamente e che mi ha trasportato verso atmosfere beat e post-moderne. Credetemi: vale davvero la pena procurarsi questo libro. Buona lettura
L’idea di una
antologia avente come oggetto una selezione quanto più completa ed
esauriente del percorso poetico di Maurizio Leo, mi solleticava da
tempo, anche perché abbiamo dinanzi un autore davvero singolare, i cui
versi sino adesso hanno procurato non pochi problemi a quanti hanno
tentato una sistemazione analitica organica e puntuale. Maurizio Leo, che oggi vive e opera a Copertino in provincia di Lecce, nasce nel 1959, e da più di quindici anni porta avanti con encomiabile impegno una piccola casa editrice I Quaderni del
Bardo, paragonabile per qualità editoriale alle pubblicazioni di Vanni
Scheiwiller. Non possiede una distribuzione, né un catalogo, non ha un
ufficio stampa, non ha un correttore di bozze, spesso la sua casa
diviene un piccolo magazzino per i libri che lui realizza, costruisce,
accudisce: eppure questa preziosa realtà che si muove nell’instabile e
multiforme mondo dei libri (basterebbe leggere Il Controllo della parola
di Andrè Schiffrin per i tipi di Bollati Boringhieri per farsene
un’idea), nei suoi sedici titoli annovera nomi come Paolo Valesio (sino
al 2004 resposabile del Dipartimento di Italianistica della Yale
University, oggi nella prestigiosa Columbia University negli U.S.A.),un
inedito di Vittore Fiore che ha impegnato e ha fatto ruotare attorno a
questo volume, energie intellettuali come Massimo Melillo, Domenico
Fazio, Rina Durante e ancora Maurizio Nocera e Elio Coriano. Sempre
rigorosamente con le sue forze cura Il Bardo, una
rivista a distribuzione gratuita (militante ad onor del vero), con un
inserto dedicato alla poesia dal titolo “Allestimento” che ha ospitato
un inedito del poeta cileno Arturo Morales, di chiara fama
internazionale. Di lui hanno scritto pubblicamente Antonio Errico, Paolo
Valesio, Mario Cazzato, Antonio Tarsi, Ennio Bonea. Privatamente,
numerose le lettere di stima poetica di Francesco Saverio Dodaro.
Maurizio Leo è stato tra i primi a ricevere una scheda critica e a
essere ospitato con alcuni suoi inediti poetici sul sito web di
letteratura e poesia diretto da Luciano Pagano, e di cui sono redattore www.musicaos.it.
Grazie a questa operazione editoriale, posso permettermi la piccola
presunzione di poter dichiarare di avere una conoscenza completa di
Maurizio Leo e la sua opera. Leggendo L’Uac,
il suo primo lavoro del 1981, già si intravede chiaramente da alcuni
titoli quali saranno le coordinate poetiche che daranno poi vita alla
sua identità (Pre-morte, Post-mortem, Luce e Morte,
Diversità, Disperazione, Danza di Morte, Il Vino Maledetto, Per i
Sobborghi, LSD, Nel Buio, Inutilità) . Un canto di disperazione quello di Leo nel suo L’Uac,
che si perde in un abissale eterno ritorno. Scrive lucidamente Antonio
Tarsi: “ (…) Allora poi cosa resta ai piedi del monte? Nulla forse nulla
e ricominciare sia pure confusamente e surrealmente non sembra neppure più possibile da tre,
ma da chissà dove…”. Un discorso poetico comunque ancora incerto, mai
immaturo, però come di chi non ha trovato il modo di stare in punta di
piedi sul baratro. Poi da Dogmaginazione, del 1992, comincia la svolta, chiamiamola formale, sperimentativa, lessicale di questo autore. Un
libro che è volontà di bottino, di raccolta, in cui i versi sono
incarnazione dodecafonica della meraviglia presente nell’Attendere, non
importa cosa … fosse solo anche l’attesa della Fine, a costo di pagare
un prezzo altissimo. Successivo all’Albergo di Latta del 1994, raccolta di transito immaginativo in un universo altro della poesia, vede la luce un vero e proprio capolavoro: Fobia.
Per definirlo occorrerebbe parlare di un vero e proprio saggio per
versi sull’Empietà, in cui si assiste ad una scrittura slegata da
qualsiasi legame alla realtà, agli oggetti, ai volti, alle storie,
perché il corpo poetico si incarna in un’Apocalisse il cui fuoco brucia,
disintegra e scioglie qualsiasi cosa vi si trova dinanzi, lasciandovi
solo cenere: sublimazione del nichilismo par excellence.
Riportiamone un brano per chiarire le idee: “Ho masticato i capelli
dell’universo, saziandomi fino a scoppiarne moralmente. Non mi hanno
fatto schifo! Questo lo dovevo pur dire. Quanto di più schifoso esiste
che noi non sfioriamo? I cadaveri sprofondati nei sensi dell’essere,nei
domini dell’irreale, certo non provano un forte sgomento, tra i nefasti
miasmi di un’impresa comune. FINORA MI SONO SOLO INGANNATO. Ho
bestemmiato fuggendo, con una ferita alla testa ela rabbia del
linguaggio mi affrettava il passo; sono caduto in una pozzanghera,
l’acqua era sangue, sangue vergine, sangue d’innocenti; fredda è la
brutalità del cacciatore, che nell’inverno bianco, insegue l’uccello ai
piedi di un castagno. Volgare terra, un giorno sarai sballottata tra le
mura dell’universo,e quel giorno VOI, vi romperete la testa, e saranno
sventure e maledizioni le corruzioni delle vostre moralità”. Ma Maurizio
Leo, nella sua carriera di poeta, sembra seguire il desiderio di
sorprendere i suoi lettori e non solo. Nel 1998 c’è un vero e proprio
cambio di point of view, nell’orizzonte del Nostro,
tanto che ontologicamente ed esistenzialmente rivoluziona i codici, i
versi diventano sincopati, spezzati, quasi a voler rendere violenza alla
Poesia, ma alla maniera di un coitus infinitus, come
fece gia Allen Ginsberg o William Burroughs nel suo Nova Express . Già
perché dal 1998 la dimora che Maurizio Leo sceglie per farsi vivere
poeticamente, è la stessa di Hemigway, Faulkner, Kerouac, Bukowski, un
tratto della storia della poesia internazionale, raccontata
magistralmente nel 2005 da Fernanda Pivano nel suo The Beat Goes On , per i tipi di Mondadori. “
la macchina si è rotta/ mi hanno rubato il fegato/questa salita
infinita/ senza una strada/ tristezza che si scioglierà in un sorriso/
queste scogliere/ come una camera da letto/ho consumato fiammiferi e
sigarette/ sui tetti scorre l’acqua dei critici/ musica posa le mani/
ehi! Charles mi devi 40 dollari” (non suona più il jukebox nell’appartamento di Allen, 1998). Esiste
però una strana coincidenza, forse metastorica, fortemente astratta,
tra una svolta di tal sorta, a questo punto anche timbrico-ritmica,
proprio a cavallo tra il 1998 e il 1999: la nascita dell’Hip Hop, che
guardacaso, viene fatta coincidere convenzionalmente con la
pubblicazione nel 1999 del singolo Rapper’s Delight da parte del gruppo newyorkese Sugar Hill Gang. Una
sintesi, forse ai più potrebbe sembrare azzardata, assolutamente
riuscita tra la cultura beat e quella della nuova cultura (in quegli
anni ovviamente) afro-americana. Il risultato sarà Il Bazar delle parole scomposte
(2002). Per la cronaca, nel 2000, Maurizio Leo, pubblica, continuando
instancabilmente la sua attività editoriale, alcuni suoi versi
nell’antologia dal titolo Absentia , la prima antologia
di militanza scritturale, che ha pubblicato gli interventi di quei poeti
che in quello stesso anno, hanno dato luogo a performances nei pub
salentini come L’Old Crown di Copertino, il Sirtaki di Porto Cesareo, gli Addams di Lecce. Ma ritornando al Bazar delle parole Scomposte
non a caso Paolo Valesio scrive nella prefazione: “E’ interessante per
esempio vedere come in questi testi i lacerti di una certa retorica
modernistica del Mediterraneo (…) si inseriscano in una prosaicità
contemporanea post-industriale (dentro una sola immensa periferia del
mondo), e vengano poi smistati a uno sfondo nordico-gotico tutt’altro
che mediterraneo (…) Analogamente è molto beat-vagabondante”. Ma
facciamo parlare i versi : “ ci siamo fermati nei gabinetti/ di un
autogrill/ ermetici/ ci porteranno sulle nubi dell’inquietudine/ chissà
se per domenica arriveremo/ all’hotel plaza/ nello spazio del silenzio/
nell’assurdo che ci spinge ad avanzare/ poi un cartello: accendete le
sirene”. Nel suo ultimo lavoro dal titolo Il cimitero di memoria,
Maurizio Leo sembra mantenere il suo trend di ricerca sintagmatica
lavorando su di un’espressività poetica lacerante del dubbio,
dell’angoscia, del lutto, della separazione. Recupera toni
iperastrattamente poetici ma di una polarità negativa, producendo versi
come se fosse un novello Aleister Crowley che scrive sotto la dettatura
del demone Aiwass il grimorio maledetto “The Book of Law”. Il paragone
non è inappropriato perché qualcosa di infernale si cela nei versi di
Maurizio Leo, che riesce a costruire architetture poetiche
dall’umbratilità goticheggiante di un Blake nel celeberrimo “Matrimonio
del cielo e dell’inferno”. Maurizio Leo fa sua l’esperienza beat, pulp,
assorbendone la matrice codificata nell’ambito dell’espressività
letteraria quando scrive la gioia non è scomparsa/ non è
scuro il mattone/ grondante di sudore/ non può erigerlo/ ma sono vere le
lacrime dell’indiano alto due metri/ che nell’estasi scompare ma la
supera creando un suo percorso dove il corpo poetico si sbriciola in
abissi dove i ricordi, la memoria divengono abominii che scarnificano,
lacerano una demografia perversa che annuncia il viaggio: “ Ci
ritrovammo, fermi, innanzi alle croci del piccolo cimitero di Memoria.
Pietre e croci. Legno e fiori. Polverosi viali e poi qualche filo
d’erba. Attendemmo l’arrivo per poi ripartire. Attendemmo, in questa
minuscola parte di mondo, in questo lembo di terra di nessuno. Qui di
Memoria “. Al di là di una possibile ragione
decodificativa sulla produzione poetica di Leo, esiste la metà oscura di
tutta questa faccenda. Ebbene se dovessimo spiegare il perchè di un
poeta beat, o post-beat, in un territorio come il Salento, lontano dai
miasmi dei sobborghi delle grandi metropoli americane, o comunque
distante da quelle città italiane che hanno avuto l’opportunità di
ospitare mostri sacri della beat - come Genova che nel maggio del 1979 in
un teatro accolse un’azione performativa di Allen Ginsberg e Peter
Orlovsky - azzereremmo qualsivoglia possibilità di rendere un autore
come questo degno di entrare a far parte di antologie di rilievo
nazionale. Ma a questo punto risulterebbe addrittura normale chiedersi
che senso hanno avuto una Claudia Ruggeri o un Salvatore Toma, e perchè
no anche un Antonio Verri. Già…perché la qualità
c’è e come! Un aspetto questo che si può capire subito, leggendolo, e
trascurando il fatto che sia un poeta che viva a Copertino, in provincia
di Lecce, patria del Santo dei voli, Giuseppe Desa . In ogni verso di
Maurizio Leo c’è una sofferenza incredibile, forse inenarrabile, che non
nasce dall’essere un mestierante dei versi, chè quelli si limitano a
voler verificare se la parola scelta calzi a pennello in questa o quella
determinata strofa, se il ritmo acciuffi o meno per i capelli il
lettore, se occorrano o meno giochi di prestidigitazione pur di trovare
la chiave di volta che attraverso la discesa dello spirito della
Sperimentazione, lo cinga di alloro … La forza dei versi in Leo, è da
ricercare nella disperazione del riflusso infinito dei giorni che
passano, senza concedere sconti, perché è la vita stessa che non ne
concede, e non concede tempo, né spazi, né pause dove poter scrivere
liberamente qualche verso (quasi dissanguandosi), perché la lotta per la
sopravvivenza è da giocarsi sulla mediocrità dilagante che ti circonda,
quella fatta di tempi bui, di volti che ti attraversano senza regalarti
nemmeno un sorriso, di persone che dove si posano cambiano colore, o
dei burocrati della cultura, sempre pronti mai sazi di confezionare
pacchi dono, luccicanti, sfavillanti di banalità. Non siamo di fronte né
ad una poesia di lotta politica, né d’impegno civile. E’ una poesia di
resistenza, quella di Maurizio Leo, che crea attorno al suo corpo una
seconda pelle, indispensabile per evitare bruciature, soprattutto quando
si sente di non appartenere ad un contesto particolare, che si vorrebbe
vivere altrove, e respirare un'altra aria, a sognare, atroce sognare, regressus ad infinitum verso l’oblio del senso … insomma essere da tutt’altra parte. Certo fumare le Pall Mall, le stesse sigarette del maledetto James Dean, mantenere rapporti con l’America, mandando i suoi libri alla
Yale, scrivendo alla mitica City Lights… pura coreografia? No! E’
sentirsi di un altro mondo e di un altro modo: “ scesi nella parte sud/
dell’aeroporto/ tutto brillava nella pozzanghera/ pensai/ è un mondo di
macchina/ mi fermerò a comprare/ una cravatta/ invece del solito drink/
sbirciai attraverso il vetro/ vidi/ ciancianti befane/ dispensare
anemiche cibarie/ in piatti di metallo/ a ciascun sacrificio/ c’è un
ragazzo purificato/ non è un gorilla/ è solo/ desolation blues”. Ora,
l’intera operazione di antologizzare Maurizio Leo, potrebbe anche starci
… ma entro un certo limite. Perché i suoi versi mi hanno fatto pensare
ad una vera propria history of violence, mi hanno portato alla mente le immagini del film Easy Rider o Marlboro Man,
insomma di tutto uno spazio da grande schermo, da Twenty Century Fox,
da Hollywood per farla breve. Non stiamo alla larga da questi versi, ma
assumiamoci il rischio di affrontare questo poeta a pugni e denti
stretti, di prendere anche dei colpi piuttosto duri, sui nostri bei
visini, abituati alla poesia da giardino … mentre c’è ancora tanta Bud
Weiser da buttare giù!
Da: www.musicaos.it