L'ERESIA DEL PIANTO di Tiziana Tius (Thauma Edizioni)
Care amiche, cari amici, per le recensioni di Linea Carsica vi proponiamo questa interessantissima silloge di Tiziana Tius.
Buona lettura.
«Il pianto
scagiona la tristezza / dell’esser fuori posto / ma se tu fossi rimasto / come
il frutto dell’albero / le guance non sarebbero / gravide di lacrime» (p.23).
Ecco, potrebbero bastare queste poche parole per far immergere il lettore nell’universo
poetico di Tiziana Tius, un immaginifico mondo che emana dalla notevole
raccolta lirica L’eresia del pianto,
Thauma Edizioni, 2011. Liriche rigorosamente senza titolo (fanno eccezione i
contrassegnati intermezzi riflessivi relativi alla lettura di Fernando Pessoa e
la finale prosa poetica Malinconia) che
promettono il fuoco divino della tensione e l’eccitazione che si prova sul
bordo liminale teso tra l’abisso e la volta celeste: «Non possiedo alcuna
parola / nel mentre scivola / dalle labbra schiuse / l’ho già perduta» (p. 15).
Un tendere duplice quello della poetessa, dove la sempiterna dualità tra Amore
e Odio – come non pensare a certe suggestioni catulliane? – sembra sottendere
le composizioni, insieme ad un altro contrasto che si perde nella notte dei tempi,
quello tra luce e tenebra, dove la prima ci appare come l’amore vero, quello
che non possiede ma ama senza nulla chiedere in cambio e la seconda, di contro,
che getta il suo velo cupo e ingannatore su tutto ciò che viene alla vita. Il “non-possesso”
dunque – anche quello della parola – lungi dal rappresentare una mancanza, è
invece l’effettiva forza trainante dell’emozione, che attraverso il sentire
poetico si trasforma in versi, un’operazione alchemica, che tramuta in oro il
metallo grezzo. Non può sfuggire allora l’intesa che la poetessa stringe con la
parola e con l’infinità simbolica che questa costantemente richiama: «I poeti
si cibano di lacrime / di cieli disegnati sulle guance / evanescenze luminose»
(p. 29). Il ritorno insistente di alcune voci (si pensi ad es. a “lacrime”), disegna,
a nostro avviso, quasi un Logos
plurimo, diviso in mille e mille sfaccettature, che irradia le superfici dell’umano
per poi penetrarne a fondo i punti più reconditi. E proprio la parola, seppur “non
posseduta”, seppur non incatenata o piegata al volere di una versificazione
tiranna – ma comunque potente, abissale, arcana – è invocata, non come
giaculatoria propiziatoria bensì come esperienza lirico-dialettica del
negativo, un’arte modulare in sottrazione, quasi tendente all’attraversamento istintivo/intuitivo
di certe progressioni di Horkheimer e Adorno: «L’assenza di una parola è ombra»
(p. 57), così vengono condensate le essenze del verbum e del verso, in negativo, dicevamo, ma non per questo in
modo arrendevole, tutt’altro. In questa silloge – matura, ricercata, ablativa –
si respira un’immensa forza scardinante, destabilizzante, priva di accondiscendenze:
«A dimezzare il cielo / la parola versata / dalla bocca colma / di fiori
spezzati» (p. 33). Ad un’attenta lettura, non sfugge, celato tra le pagine, un
certo afflato biochimico, quasi che il corpo sia non solo il contenitore dell’anima,
il vaso da riempire con i fiori del pensiero e del sentimento, ma carne
pulsante, viva, capace di esplodere o implodere a seconda dell’emozione da cui
viene trapassato. Così il respiro, le lacrime, la voce, l’orecchio e, appunto,
la carne, non rappresentano semplici accidenti o prolungamenti di un non meglio
precisato stato interiore, sono essi stessi parte intrinseca del poetare,
dirompente fisicità. Una Poesia del
presente, forte, viva nel qui e nell’ora, che raggiunge l’infinito poetico non con
la mera aspirazione a “ciò che non è” ma, a parer nostro, con un Esser-Ci di matrice heideggeriana: «Se
penso al vuoto che non lascerò andandomene domani, se penso che tutti si
scorderanno presto di me, io sento di non provare pena». (p. 25). Sostare oppure
muoversi nello sterminato universo spazio-temporale del verso senza la smania
del ricordo, del souvenir d’enfance del poetino, ecco il senso di questa poetica atarassia.