PASSIONE di Luisa Ruggio

Care amiche, cari amici, sono felicissimo di ospitare su Linea Carsica le meravigliose parole di Luisa Ruggio. Passione, uno scritto denso di suggestioni, sospeso tra Spazio, Tempo ed Essere.
 

PASSIONE di Luisa Ruggio

Una notte argentea di marzo.
Una notte di marzo in un avamposto periferico. Non è manco un paese.
Semmai è una striscia gialla di gramigna, un’orchestra di salici accordati dal grecale, un gruppo di villini e roseti, qualche calla, una scuola ricavata da una casa col giardino che si arrampica sulle finestre e gli scalini, un campetto di calcio che ritorna palude appena piove, la merceria coi bottoni di madreperla, il fornaio a credito, il teatrino di un oratorio assediato da sciami di ragazze che sono diventate madri troppo presto.
Cos’altro?
Una notte di trent’anni fa. E io mi trovo nel corteo di cinque o sei persone – incluso il prete, un attore di fila mancato, con la sua palandrana ricamata col filo d’oro, la voce impostata – che seguono la processione del Venerdì Santo.
Mia madre mi ha dato uno smozzico di candela cui badare, mi si scioglie sulle dita mentre la scruto dal basso. Sto nell’andatura del suo fianco. Vedo i suoi lineamenti scolpiti dalla piccola luce della fiammella che ripara con una mano.
Anni dopo mi sembrerà di riconoscere questo momento, in un quadro di Georges de La Tour. L’educazione della Vergine.
La sua lunga treccia oscilla, è il pendolo dei giorni, delle stagioni. Non c’è un altro orologio da controllare, soltanto quel neroblu.
Mi chiedo perché gli altri bambini non hanno avuto il permesso di restare svegli stanotte e spio di continuo la luna – che non è ancora piena – per vedere se succede qualcosa durante ciò che ci hanno insegnato essere la Passione.
Di certo, senza l’intercessione di mia madre, sarei in camera mia con una zuppa di latte e un libro illustrato.
Mio padre si è opposto con forza alla teatralità della sua fede. Non vede l’ora di portarci via da qui, in città, dove certe cose non succedono e i bambini piccoli sbadigliano a messa soltanto la domenica. Da grande incontrerò altri uomini decisi a portarmi in qualche città, e la città sarà sempre più grande e astratta, senza terra intorno, senza gramigna, quindi per me inutile e lontana da ciò che desidero davvero.
Sì, “Questo rito funereo,” lo innervosisce, me lo vieta senza spiegazioni. Perché lui non prega un Dio, lui è un dio, il mio – strafottente e bugiardo. Un dio in cui nessuno crede, eccetto me.
Sa benissimo che la Via Crucis è solo la scusa per non andare a dormire, conosce il mio interesse piuttosto ossessivo per quanto avviene di notte. Sa che cerco di capire come funziona, mi sbilancio. Salto il sonno, fingo.
Sa che quando li credo addormentati sguscio nel giardino a guardare certi fiori fucsia che col buio serrano le corolle.
Mia madre ha messo un cuscino di traverso nel mio letto, un fantoccio che devo sembrare io, ben coperto. Mi ha fatto uscire dalla finestra – “Scccccc!” – come una principessa in fuga.
Sono attonita, euforica. Perché lei è in tutto e per tutto come immagino doveva essere il giorno in cui scappò a concepirmi, una selvaggia. Gli occhi obliqui, un po’ indiani, disegnati con il kohl, da malandrina, da fata.
Il prete cammina scalzo davanti a noi, in preda a un’esagerazione profonda. Appena un assaggio di quel che vedrò molti anni dopo, a Gallipoli, dove gli uomini delle confraternite si incappucciano e scortano le statue della Processione dei Misteri nel nodo di vicoli dalle pareti marine, tra gli sputi dello Jonio che spinge contro i bastioni.
Ma quella notte c’è solo un sentore di incenso, di cera, una mescolanza di borotalco e fiori. La bruma di mia madre.
Il corteo dei sei – il prete, il chierichetto, la signora Assunta della merceria (che ha perso un figlio in circostanze misteriose di cui non si deve parlare, maisiasignore!, ma di cui tutti sanno), Tonino lo scemo che cantilena il dialetto del No – “Noneeee noneeeeeee!“, mia madre ed io – gira intorno al grappolo di case basse vegliate dai gatti che ci fissano stupefatti.
Quando passiamo davanti casa nostra, vedo che la luce dello studiolo è ancora accesa. Quello è segno che forse mio padre è ispirato e sta dipingendo una matrona gigantesca, nuda e liscia come un’ostrica.
Tanto lui lo sa che quel fantoccio nel letto non sono io.
“Passione!” esclama ridacchiando quando rientriamo cercando di non far rumore, con le candele ancora accese, come due cretine, “Passione!”. Mia madre non trattiene la risata.
Sì, lui lo sa.
Come io so delle cose, a Gallipoli, trent’anni dopo, mentre ripenso alla sua bara deposta nella terra, quando la policromia delle statue portate a spalla esplode nel crepuscolo.
Una granata invisibile si sgancia nella rapa del mio cuore, con le radici imbevute del sangue di una guerra segreta, ininfluente per il resto del mondo, tra me e me che da poco ho conquistato un armistizio.
Quando qualcosa mi respira nel petto, un amore che è peggio della trozzula, un cingolo che porta in sé la forma di un’assenza, non la croce di un falegname sciamano, non la fede nei ritorni, ma il sorriso di mio padre che sale dalla schiuma della spiaggia della Purità, la sua foschia perduta, la sua Passione in un letto d’ospedale, che un giorno ha reso lui piccolo – un fantoccio, una controfigura – e me grande. Di colpo.
Così mi spiego tutto, la massima perfezione dei cuori cesellati dentro corone di spine, mi spiego quelle madonne vestite di scuro, la gente che spinge al di là delle transenne per guardare in faccia i propri minuscoli addii. I Re di carne che abbiamo amato, uomini comuni, poveri cristi, la loro vitalità passata come i pescherecci che svoltano l’angolo al tramonto.
Una notte di trent’anni dopo – quanti battesimi e funerali, quanta felicità e disperazione, quante città senza terra – mi stacco dal gruppo dei fotografi e dei giornalisti che ogni aprile tornano a raccontare la processione.
Mi sfilo le scarpe dai talloni, resto scalza, affondo i calcagni nella sabbia.
Cammino incontro al mare, in riva alla mia esagerazione profonda, una dolcezza liquida, timida. “Passione!”, penso. Nooone, nooneee. Passione.



Luisa Ruggio (1978), giornalista e scrittrice, ha pubblicato con Besa Controluce: "Afra" (2006), "La nuca" (2008), "Senza Storie" (2010, Menzione Speciale Premio Bodini), "Teresa Manara" (2014), "Notturno" (2015). Suoi articoli e racconti sono apparsi su riviste e antologie.  

Post più popolari