CARMELO BENE: ESSERE ALTROVE

Intervento di Gianluca Conte su ZONA DI DISAGIO, blog di Nicola Vacca

 

Carmelo Bene: essere altrove  

CB
«Non essere dove si è, essere altrove, smarrirsi per non più ritrovarsi». Il cammino umano e artistico di Carmelo Bene andava nella direzione del de-collocarsi, del togliersi dalla scena, dell’allontanarsi dal Sé. E non era affatto una via facile da percorrere. Nel momento in cui Parmenide s’iniziò all’essere, l’uomo incominciò a complicarsi l’esistenza. Carmelo Bene non aveva nessun dubbio a riguardo: una miriade di questioni nasceva dal volersi confrontare con una (ir)realtà così spinosa e vaga. Sono passati millenni e il problema – ontologico, gnoseologico, etico, storico – miete ancora vittime tra estimatori e detrattori, non ultimo Heidegger, cui Bene rimandava a chi gli rompeva i cosiddetti con il Sein e con l’ontologia. Poi, all’orizzonte, ecco pararsi la speculazione deleuziana, impegnata nell’ardua prova di rivoltare uno dei più stigmatizzanti dualismi filosofici e umani, quello “Io-Altro”, che aveva trovato crogiuolo nell’universo antropocentrico occidentale (ma non solo), e Carmelo Bene, incarnazione di rottura, lacerazione, fenditura, trovò nel pensiero del filosofo francese materia di scambio e di confronto (a modo suo, naturalmente). Non tutti i defunti sono buoni, amabili e seguaci di rette vie, bisogna farsene una ragione. Nel caso del nostro, poi, il disertare tutto ciò che era già stato battuto, anche se attraente, rappresentava la “buona cattiveria”, il ghigno liberatorio, contro la pseudo bontà dell’ufficialità e della cultura generalista. Che Bene fosse la testimonianza vivente del potere sovversivo dell’arte (ma guai a parlare del sociale e del politico davanti al campiota) è cosa da tenere in grande considerazione, affinché ricordare il maestro in occasione dell’anniversario della sua nascita non diventi l’ennesima scritta sulla lapide di una memoria istituzionalizzata e, cosa ben peggiore, edulcorata.
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Quella di Bene è stata una figura unica, irripetibile nella storia dell’arte: teatro, cinema, poesia, scrittura e, suo malgrado, televisione hanno tribolato non poco sotto i colpi del suo genio irrequieto, quasi teppistico. Attenzione: stiamo parlando di arte non di cultura. Egli odiava quel termine così ambiguo, così servile, fin nell’etimo. Più volte il nostro si era preoccupato di associare la parola cultura al colonizzare e al colonizzato. Sorte migliore non toccò all’informazione, soprattutto quella giornalistica, vero male dei tempi (Nietzsche ne sapeva già qualcosa), cui il nostro riservava grandiose stilettate. Tuttavia, Carmelo Bene non era solo un provocatore, uno che si divertiva a farsi odiare, spesso riuscendoci. Egli era un inattuale o, come lui stesso affermava (nevvero?), un classico tra i classici e, cosa importantissima, vivente. E poi la voce, quel grande, immenso organo di devastazione di stereotipi, di abitudini, di conoscenze. Dare voce non tanto a Majakovskij o a Campana – lì l’effetto era quasi scontato – ma a Leopardi è stato qualcosa di dirompente, di inaspettatamente estremo. Trasformare l’Infinito leopardiano in qualcosa di lunare, marziano, venusiano; trovarsi in presenza di un Pierrot o-sceno che inquieta non solo le viscere ma la mente; anticipare i tempi della tecnica, amplificando, meccanizzando, disumanizzando pur servendosi di un cuore, di una bocca, di un volto: tutto ciò ha del prodigioso. Farsi macchina attoriale e, forse, macchina tout court, strizza l’occhio all’apocalisse dell’umano, dimensione spazio-temporale dove valori e disvalori si annullano nel sommo niente. Un niente dal sapore tutt’altro che pessimistico ma futuristicamente primitivo, lontano, inattuale. Alfine, realizzare non solo un annientamento della scena, del corpo, ma una scomposizione della parola, del verbo, sostare presso un “Ni-Ente” che possa, in qualche modo, portare all’avvento di quell’agape schopenhaueriana che di volta in volta faceva capolino dalla macchina beniana. In questa dimensione o-scena, de-strutturata, anche la morte, come noi la conosciamo (e temiamo) non ha più senso, poiché è l’intero insieme della s-oggettità a perdere senso. Chi ha la ventura di addentrarsi nell’opera di Bene può godere di qualcosa che non troverà altrove: la sensazione vivida di trovarsi di fronte a un’arte maledettamente autentica, folle e spietata. E questo, a molti, fa paura.

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