COPPIE MINIME di Giulia Martini (Interno Poesia)


Coppie minime di Giulia Martini (Interno Poesia)



«Scambi col tuo esilio delle mandorle,

finite in cinque nelle abitudini

contro il cancro che giornaliere abbandoni

se novembre ti entra nelle ghiandole

e non ti cede il posto lo scorpione».

(p. 61)



Di rado, nel proliferare insulso delle (pseudo)raccolte poetiche contemporanee, si scorge una luce densa, compiuta, che squarcia il buio dell’ovvietà e dell’inopportuna saccenteria. Uno di questi rari casi è Coppie minime di Giulia Martini, Interno Poesia, 2018. Fin dai primi versi di questa pregevole silloge sono evidenti la cura della lingua e dello stile, dai quali deriva una notevole con-vergenza poetica: «Calendimaggio d’un maggio d’antan. / Mi cali lemme lente nel lemmario / chansons di gesta. Quale calicanto / del Getsemani tieni tra le mani?» (p. 18). Il lettore deve fare i conti con un innalzamento (evviva!) dell’asticella ermeneutico-emozionale, deve, finalmente, rendersi consapevole che la poesia non è soltanto – se mai lo è stata – quella mitica “corrente di coscienza” calata dall’alto come per miracolo, ma è lavoro certosino, affinamento, limatura. L’autrice sembra condurci verso orizzonti di ghiaccio, di algida raffinatezza e, a un tempo, capaci di ustione, di caustica consistenza, di mordace espressività: «Ti prendo per lacerti in questi giorni / di magra, di magnificat.» (p. 24). Un’odierna odissea linguistica si apre su un mare di sottile inquietudine  – con un senso di surreale smarrimento che sottende l’intero scritto – opportunamente celata nel profondo di componimenti ipnagogicamente sbarazzini: «Tu che sei sempre nata a Todi / mi dici – Again, again: do it» (p. 36). L’impercettibile si fa auscultabile attraverso un piano del reale reso faglia, dove il gioco della lingua è trasversale alla sostanza ontologica del fenomeno/sentimento/fatto. La volontà dell’autrice appare impressa in un’ombra dalle suggestioni quasi borgesiane, sviluppandosi come un tutt’uno con l’ensemble musicale e satiresco dell’universo. A nostro avviso, la compiutezza, in queste liriche, è riscontrabile proprio nell’aprirsi alla natura imperfetta dell’umano e, rischiamo l’azzardo, alla mesticanza tra essoterico ed esoterico: «Se pareba boves. Apparivano / all’alba. Nessuno sapeva dove. / Erano in cinque o tre – comunque dispari. / Flopsy li spingeva davanti a sé». (p. 96). In Coppie minime, la chirurgia della parola non smorza ma accentua il fuoco lirico dei versi, che sono sospesi in una dimensione alterante, tutt’altro che accomodante: solo chi veramente vuole suggere da una fonte aspramente idromelica arriva a farlo, una lettura di superficie non troverà soddisfazione, è il prezzo da pagare per godere della vera poesia: «Amore, niente più si oppone / a che arrivi mezzogiorno.» (p. 79), poiché, se già il titolo della raccolta preannuncia un’ambiguità di fondo, distante e opponente, dove la coppia non muove nel senso dell’ordine matematico bensì del disordine sibillino del verso, occorrerà una liberazione geopolitica degli essenti per insidiare, anche solo per un attimo, le pulsioni/erosioni della Martini, il suo fantasticativo: «Un unicorno – bianco, o forse equivoco – / apparso all’improvviso, ugrofinnico/ – come il latte – da carnevale latitante / illecito dopo le Ceneri;» (p. 103). Ecco, allora, che le antinomie dello spazio-tempo dell’umano, il divario della prossemica amorosa, dello strazio iperbolico del sentimento, sembrano trovare una nebulosa soluzione di continuità proprio dove risiede l’annientamento della concettualizzazione e si origina la vera frattura del reale, la genesi linguistica e meta-ritmica del senso assoluto: «Ma Marta non mi è più contemporanea – / ormai declina a un lontano passato / la rondine il futuro trapassato – / curiosa ancora ma già estranea / come galassia in allontanamento». (pp. 117 e 118). 



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