TUTTI I NOMI DI UN PADRE di Nicola Vacca (L'ArgoLibro Edizioni)



Tutti i nomi di un padre di Nicola Vacca (L’argoLibro Edizioni)






«Parlami della ferita che non si medica

stammi vicino con una quantità di dolore

che è amore [...]»

(La verità è amara, p. 47)





Dove si insinuano la perdita e il lutto si apre un vuoto incolmabile. Quando i genitori – coloro i quali hanno donato la vita, non solo e non tanto in senso biologico, ma nel senso dello “stare al mondo” – si dipartono dalluniverso sensibile, occorre fare i conti con un dolore fortissimo e con l’assenza disumana dell’origine. È quello che ha fatto Nicola Vacca con questa densissima e abissale silloge. Tutti i nomi di un padre, L’argoLibro Edizioni, 2019, rappresenta un confronto al limite del possibile, dell’umanamente sopportabile, poiché prende le mosse da accadimenti autentici, vissuti in tutta la loro drammaticità. Vacca, poeta, critico letterario, intellettuale di cui ho sempre apprezzato l’onestà e il mettersi a nudo a costo di sanguinare, buon “allievo” di Cioran e dei suoi squartamenti, ci regala forse la sua raccolta più sentita e intima, il cui incipit è significativo: «Mio padre mi chiede / “dove stiamo andando?” / Da nessuna parte / perché da nessuna parte veniamo [...]» (Il dolore, p. 11). Il punto cruciale di questi movimenti poetici, ricchi di stentorea dinamicità, è proprio questo: il dolore come cifra dell’umano, come tratto ineludibile dell’ànthropos. Risiede qui la grandezza del versificare di Vacca, nel rendere umano ciò che è disumano e, ratio davvero difficile, riuscire a condividere il male dell’accidente nefasto, dell’avversità, con gli altri: «Si apre un altro giorno / qui dove tutto frana. / Occhi che vedono / mani che si stringono / per (r)esistere al dolore. / Non c’è altro da fare / che tentare un abbraccio / il resto non dipende da noi». (Il dolore ancora, p. 12). L’abbraccio, gli occhi, le mani: la fisicità che oltrepassa la materia bruta del male, quasi una metafisica del dono, del darsi all’altro, poiché ciò è una delle poche possibilità che l’essere umano ha di spingere l’inatteso dolore in una posizione di subalternità rispetto alla forza vitale della comunione. Il noi al di sopra dell’io, il plurale al di sopra del singolo. Ma il poeta non crea illusioni, falsi miti, chimere: è cosciente, pur nel momento del supremo scoramento, che il mondo antropico è lontano da un simposio perfettamente solidale: «[...] Nel regno dei vivi / accade di tutto / spesso si incontrano anime già morte / che hanno la presunzione / di durare per sempre». [...]. (Due regni e una sola miseria, p. 19). Poi, d’incanto, s’accende la figura che sovrasta e sottende la struttura della silloge, il padre, uomo capace di essere presente come non mai, proprio nell’eterno frangente della scomparsa. Egli dimora non solo nei pensieri del figlio, ma si muove, sia attraverso le sue idee sia a mezzo degli oggetti, che ne ricalcano la ligia esistenza: «Mio padre era socialista / la libertà, la giustizia e il bene / li aveva nel dna. [...] Mio padre era socialista / perché credeva nell’uomo come fine / abbracciava tutti come fratelli [...]» (Le idee di mio padre, p. 25) e ancora: «[...] Oggi ho indossato la sua fragranza / mi sono fatto la barba con il suo rasoio / ho toccato le cose / con cui ogni mattina mio padre / dava il buongiorno al mondo». [...] (Mio padre, le sue cose e io per sempre, p. 27). Sono versi di una dolcezza disarmante e, al contempo, di una grazia che sa trovare asilo pur nella condizione grama in cui l’abbandono di una persona cara lascia chi rimane. Il poetare di Vacca, privo di orpelli sornioni e ricco invece di elementi che hanno il sapore dell’autenticità, trova nel quotidiano confronto con la condizione dell’oggi l’espletarsi di un verso carico di senso, laddove il senso, provato dalla nostra insufficienza, dall’impreparazione cronica alla dissolvenza fisica, sembra deficitario. Ecco, allora, l’invito a restare umani, a tendere le mani al prossimo, a non lasciarci andare alle teorie e alle pratiche degli smaliziati, dei cinici, di chi vorrebbe – mancanza sua – una società votata al più becero individualismo, noncurante della caducità dell’essere umano, creatura transeunte e debole con manie di onnipotenza: «Teniamoci stretti / perché la storia dei baci finisce. / Teniamoci stretti / perché siamo polvere». [...] (Teniamoci stretti, p. 35). Tenersi stretti non è un cedimento, non è pegno dell’arrendevolezza, è cercare, insieme, un andamento degno d’umanità: «Tutto dovrebbe cominciare con un abbraccio [...] Tutto dovrebbe avere l’odore del pane / da mangiare su una tavola imbandita / di persone che coltivano / un reciproco bene». [...]  (Introspezioni, p. 37). È come se a guidare il pensiero e la mano del poeta ci fosse l’idea, mai superata, di un Sommo Bene, di una possibile perfettibilità dell’umano che può essere solo nel noi, perché è solo nel noi che si può essere anche fragili, anzi, la fragilità, lungi dall’essere derisa, diviene elemento di vera vicinanza: «[...] La fragilità sia la nostra pelle / perché davanti alle avversità / bisogna mostrarsi vulnerabili ma veri». (Fragilità, p. 38). Sono versi, questi, di inaudita bellezza, perché vanno a stringere il figlio, qualunque figlio, in un caldo abbraccio, come avrebbe fatto un padre amoroso e fermo. Poi, quasi in filigrana, ma proprio per questo indubitabile, giunge il momento di guardare per intero la propria esistenza, e qui compare la figura della madre, la cui dolcezza disarma il lettore: «Oggi ho aperto il quaderno / dove mia madre tra numeri e ricette / dava conto al tempo dei suoi giorni. / Mi sono perso nella sua scrittura / come in tutto l’amore di cui è stata capace» [...] (Lei e io, p. 60). Perdersi nella scrittura per ritrovarsi, magari in un lungo abbraccio. Infine, un elemento irrinunciabile dei versi di Vacca: la memoria, uno scrigno di tesori da custodire, tuttavia non in senso monumentale, ma costituente, un registro sociale e civico da vivificare, dando a essa un valore non solo individuale ma anche e soprattutto collettivo, per fare in modo non di rendere l’estremo saluto meno crudo e doloroso ma di affrontarlo con quella giusta dose di coraggio proprio di una vera umanità: «[...] Adesso tocca alla memoria / anche se non sarà facile dirsi addio». (Il rito delle esequie, p. 63). 




Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. È redattore della rivista «Satisfiction». Ha pubblicato: Nel bene e nel male (1994), Frutto della passione (2000), La grazia di un pensiero (2002), Serena musica segreta (2003), Civiltà delle anime (2004), Incursioni nell’apparenza (2006), Ti ho dato tutte le stagioni (2007), Frecce e pugnali (2008), Esperienza degli affanni (2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (2010), Serena felicità nell’istante (2010), Almeno un grammo di salvezza (2011), Mattanza dell’incanto (2013), Sguardi dal Novecento (2014), Luce nera (2015) - Premio Camaiore 2016, Vite colme di versi. Ventidue poeti dal Novecento (2016), Commedia ubriaca (2017), Lettere a Cioran (2017), Almeno un grammo di salvezza, riedizione (2018).




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