LETTERE DA ATLANTIDE di Anna Spissu (Caosfera Edizioni)
Lettere da
Atlantide
di Anna Spissu (Caosfera Edizioni)
«Sentire che l’anima nostra,
le croci portate e gli alberi
fioriti
sono benedetti da qualcuno
come fossimo grazia divina,
tesoro nascosto
finalmente scoperto».
(Come si riconosce un amore, p. 67)
Fin dal titolo di questa pregevolissima
silloge, il lettore sembra avere l’impressione di intraprendere un viaggio sospeso
tra sensibile e sovrasensibile, dove il mistero del continente scomparso si
sposa alla perfezione con un altro, irrisolvibile mistero: quello amoroso. In
tal modo, l’autrice ci invita a entrare in un “mondo-altro”, apparentemente
lontano, eppure così vicino da poterlo quasi toccare. Lettere da Atlantide di Anna Spissu, edito da Caosfera Edizioni
nella Collana Alabaster diretta da Adriana Gloria Marigo, è stato un incontro
folgorante ma non del tutto inaspettato, poiché, in passato, ho avuto l’onore e
il piacere di leggere L’amore
imperfettibile, un’altra gemma della poetessa ligure, che all’epoca mi
aveva conquistato per bellezza e profondità. In Lettere da Atlantide, la delicatezza e l’eleganza del verso si
coniugano in maniera sopraffina con la potenza delle immagini; il risultato è
tale da sconfinare nell’epico: «Per quello che possono le parole / ti dico che
sono un uomo / che conosce l’onore. // Ho combattuto con cura centinaia / di
rivoluzioni sebbene non abbia mai / sparso una goccia di sangue [...]» (Ti dico che sono un uomo, p. 21). L’armonia
della narrazione, che pur nella tensione della passione trova un equilibrio
classico, offre un luogo poetico dove pathos
e telos coincidono, e dove i continui
rimandi tra Lui e Lei sembrano imporre l’entrata in scena
dell’umana affannosa condizione: «Una volta mi hai detto che non sai / se sia
più feroce uccidere un corpo / o spegnere un desiderio. [...]» (Tu spera, p. 27). A colpire, in questa
raccolta poetica, è poi l’assertività di un logos
primigenio, che tuttavia non si lega a una “volontà di potenza” del verso, bensì
al desiderio dell’alterità, al volgersi in direzione dell’altro-da-sé, inteso sia come
persona sia come luogo fisico: «[...] Tu sei così lontano / che dovrei essere
capace / di sgusciare fuori da questi muri / chiusi e attraversare a piedi / la
lunga distanza della pianura [...]» (Ciascun
uomo, ciascuna donna, p. 38). D’altro canto, nelle parole della Spissu si
può rinvenire la radice originaria dell’eterno cruccio d’amore, del sempiterno
tormento dell’infelice, che fin dai mitici tempi della scissione androgina
colloca l’umano in una posizione di subalternità rispetto a Eros, e dove anche il
“Destino”, come ineludibile carattere dell’esser-ci,
dell’essere-gettati-nel-mondo, edifica, con imperscrutabili facoltà
demiurgiche, gli ostacoli che si frappongono tra l’umano e l’unità dell’essere:
«Non era destino: / troppo lontani, troppo grandi i problemi / dell’uno e dell’altra,
/ troppe differenze quotidiane / e alla fine i tarli divorano il legno [...]»,
(Non era destino, p. 57). Ma accanto alle
inevitabili pene, connaturate alla stessa essenza dell’umano, la bellezza muove
in tutto il suo splendore, danza nel verso cristallino della poetessa, così che
apollineo e dionisiaco si compenetrano fino a raggiungere l’acme di un
incantato lirismo: « [...] Io sono una dea. / Sono una farfalla che parla nella
tua lingua. / Tu ascolti i suoni / riconosci le parole / ma non puoi comprendere
/ quello che dico [...]». (Circe. Isola di
Ea. Notte, p. 83).
Lettura consigliatissima.