CLAUSTROFONIA di Doris Emilia Bragagnini (Giuliano Ladolfi Editore)


Claustrofonia di Doris Emilia Bragagnini (Giuliano Ladolfi Editore)





«Il mio cuore è un dinosauro

perduto sommerso mareggiato

non lo troveranno mai e

se anche fosse

sono certa sarà erbivoro



diceva la matrigna che piuttosto

era peloso [il cuore dinosauro]

non ci volevo credere

ho capito poi che forse era davvero

- per proteggermi dal gelo

(L’era, p. 94)





A qualche anno dall’uscita di Oltreverso, una sorprendente opera prima, abbiamo l’immenso piacere di ritornare alla poesia di Doris Emilia Bragagnini, questa volta con Claustrofonia, nuova silloge dell’autrice, edita da Giuliano Ladolfi Editore, 2018. Si tratta di un lavoro spigoloso, ironico, a tratti intriso di surrealtà, estremo, radicale, autentico. In quest’opera, la parola – entità sfuggente, mai interamente posseduta nel suo significante/significato – si fa foriera di versi serpeggianti, indomiti, musicalmente penetranti: «cerco la nota distorsiva - quella - capace di cancellare il nesso / l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo [...]» (Sol_a Gratia, p. 34). Nella silloge è in circolo – in alcuni frangenti in filigrana, in altri in modo evidente – un’attitudine alla sospensione, al contrasto, allo sbarramento, in specie per ciò che concerne il “s-oggetto”, l’Io pensante e poetante, con una eco che riporta alla mente suggestioni lacaniane: «c’è un’ora sulle scale quanto certi passi di piombo / si trascina luce dopo luce come una fiammella intirizzita / getta le ombre e i suoni lungo il muro del cordoglio senza nome [...]» (Poco prima, p. 44). La Bragagnini ha posto in essere un suo codice personale, fatto di gesta gravide di vivide svelature, arabeschi linguistici, fonie sghembe, illusioni e disillusioni antropiche. Dal ventre di versi distesi eppure sincopati, si eleva un tratto lirico deciso, stentoreo, che tuttavia sembra originare da un sentire fragile, inquieto, irresoluto, che affonda in un tempo senza tempo, dove passato, presente e futuro coincidono in un unico istante dilatato: «chissà perché tingevano le unghie ai bambolotti / li facevamo camminare sui talloni fino a farne buchi / e serravano le ciglia nel distendersi» (Testolina, p. 47). Un senso di disordine, di caotica mistura rivela l’anima indomita dell’autrice, che di frequente sembra battagliare non solo con il verso scritto ma anche con l’essenza stessa della poesia, quasi che quest’ultima fosse una sorta di Giano bifronte, una divinità a un tempo celeste e sepolcrale, magnanima e crudele. D’altronde, se volessimo prendere in considerazione la lectio di Paul Auster, dovremmo ammettere che “Il linguaggio non è la verità (ma) è il nostro modo di stare al mondo”. Ed è proprio sullo “stare al mondo” che le cose di complicano, poiché la poesia, il più delle volte, rappresenta un oltre-canale d’eccellenza che spinge l’umano a porsi perennemente in discussione: «c’è un piccolo pensiero roditore / dove vaga lo sguardo prima della futura notte [...]» (Sonar, p. 61). Mettersi in gioco, dunque, sapere di non possedere alcuna verità, fosse anche parziale, e tuttavia farsi casa nel caos primordiale, nel sempiterno eccesso poetico che dona fiamme di rinnovata estasi scritturale: ecco, tutto questo è il versificare della Bragagnini: «di là da te / non devo fingere, aspetto senza sapere cosa / una piccola goccia spremuta dal niente / un pallido fiore di caramello [...]» (Forse dicembre, p. 76), una luce accecante dove tutto è esposto e un’ombra cinerea, in cui, alle volte, si può giacere. E se l’incrocio di più campi semantici dona a questo lavoro una complessità e una difficoltà ermeneutica quasi oracolare, vi è – così a noi pare – una linearità di fondo, rappresentata dal manifestarsi del vuoto, dell’ancestrale vacanza pre-atomistica, che disvela l’immanenza del non-senso nel senso, così che l’assenza si fa presenza, trasfigurando in figure alchemiche di chiusura, recinzione, concentrazione, difesa. Di contro, alla paventata condizione asfittica è l’autrice stessa a contrapporre, volens nolens, un volo alto della parola, riuscendo a strappare l’ànthropos dal baratro della a-significazione: «quando - chiuderò la porta - / saprò di non avere mura tra i ricordi [...]» (Da qui a..., p. 95). Tuttavia, qui non vi è la pretesa di una logica dell’illuminazione cui la parola dovrebbe soggiacere, rivelandosi chiara, definita una volta e per tutte, bensì la piena coscienza che l’importanza suprema risiede nel prendersi cura del Verbum, non solo in senso strettamente poetico ma anche nelle infinite declinazioni dell’umana sostanzialità.

Claustrofonia è una conferma non solo della sensibilità poetica e umana di Doris Emilia Bragagnini ma anche della sua finezza linguistica. Lettura consigliata.

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