ALMENO UN GRAMMO DI SALVEZZA di Nicola Vacca (L'argolibro Edizioni)
Almeno un grammo
di salvezza
di Nicola Vacca (L’argolibro Edizioni)
«Falsi e ipocriti anche tra chi
divide con noi il cibo e il sonno.
Quelli che non conoscono
la dolcezza della condivisione
e amano solo se stessi.
Le persone vere sono poche [...]»
(p. 11)
Una
lettura folgorante, versi carichi e iridescenti, potenza e atto in un’unica,
deflagrante silloge. Stiamo parlando di Almeno
un grammo di salvezza di Nicola Vacca, L’argolibro Edizioni, 2018. Una raccolta
poetica nel senso più alto del termine, dove è in corso una ricerca
dell’umanità che si muove, al minimo, su due piani, quello fermamente laico,
civile, ricco di echi democritei, e quello spirituale-religioso, che si
raffronta con le Sacre Scritture. Un’impresa mastodontica, racchiusa in uno
zibaldone denso, che esprime appieno lo slancio al Vero del poeta e critico
gioiese: «[...] Si fruga tra le macerie / in cerca di persone vere / si trovano
nani.» (Persone vere, p. 10). Armonia
e disincanto, senso civico e sentore della decadenza, schiettezza e falsità:
l’esegesi dei contrari raggiunge l’acme in versi scarnificati eppure totalizzanti,
che inondano il lettore di elementi strutturali, spingendosi all’origine stessa
dell’umano: «L’abitudine al male / ha nella paura il suo terreno fertile. [...]
Oggi è un giorno / in cui la sostanza ha abdicato. [...]» (Nel tempo della paura e del male, p. 13). La sostanza, il sostrato,
la forma, il contenuto: voci filosofiche e psichiche, radici arcane che
appartengono alla natura più profonda dell’individuo; poi, la parola, il Verbum, il principio creativo, la
maestranza definitiva che però, in bocca all’essere umano, può diventare una
delle maledizioni più nefaste: «[...] Alcune parole non sono chiare / e altre
non saranno mai pronunciate / si vive troppo nell’ottusità / della propria
avarizia [...]» (Alcune parole non sono
chiare, p. 17). Il confronto con la Parola veterotestamentaria lascia a chi
si accosta a questi versi un senso di abisso incolmabile, un motivo
apocalittico che abbraccia l’universo antropico, dalla grecità antica
all’odierno ebraismo, passando da gran parte delle “vie occidentali” verso la
salvezza. L’horror vacui, la sua presenza/assenza, il suo
nesso con un presunto finalismo, non possono che destare nel poeta, estremo
eremo visionario dell’inattuale attualità, una consapevolezza prelogica,
istintiva: «Anche Dio sa / che il vuoto esiste. / La sua scienza conosce / le
disarmonie dell’assenza [...]» (Coscienza
del vuoto, p. 23). Materialismo atomistico e processione ieratica, il tempo
doppio, lo spazio prospiciente, la continua tensione del vivere, il male che
insidia l’innocente, l’incolpevole scissione e la rea separazione
anassimandrea, tutto ritorna nel verso siderale di Nicola Vacca: al di là del
senso etico, vi è una pietas ricca di
umanità, una frizione empatica che taglia in due il buio della resa: «[...] C’è
bisogno di una voce / che doni all’innocente / la forza di non soccombere al
colpevole. // Non è mai troppo tardi / per asciugare il dolore dell’altro». (Dare voce ai giusti, p. 27).
Vi
è un coraggio sublime in queste parole, vi è una volontà di gramsciana memoria
di schierarsi, di dire pane al pane e vino al vino, senza timori, senza imbelletti,
di non rendere grazie all’entropica indifferenza ma di azzannare con parole di
fuoco il torpore dell’individuo, le sue piaghe, il suo determinismo
assiomatico. Allora il Verbum si fa
dimora del possibile necessario, dell’esistente stentoreo, dell’oscuro e
luminoso percorso vitale, dell’inequivocabile commistione di Philía e Neikos, divenendo un caldo seno: «Le parole per accogliere / hanno
necessità di una primavera. [...] Nel legno storto delle cose / dovremmo essere
la semplicità / che manifesta la fatica paziente dello spirito». (Rinascita, p. 39). Ma la ricerca, sembra
suggerire l’autore, deve essere senza soluzione di continuità, il vivente non
deve abbandonare il sentiero dell’eterno fluire verso il “vero essere”; per
andare oltre l’apparenza, oltre il mitico Velo
di maya di schopenhaueriana istanza, l’umano non può esimersi dal
confrontarsi costantemente con se stesso e con l’altro da sé, pena l’incapacità
di vedere la Bellezza, che non è fine estetico e decadente ma nucleo essenziale
dell’esistenza: «La bellezza è scomparsa / perché gli occhi non la cercano più
/ tutto è per il presente / e niente per l’eterno» (Le cose che restano, p. 43). Ecco, il dualismo transeunte/sempiterno
sembra qui risolversi in un locus
antelucano, il ventre dell’umana genitura, poiché è dentro di noi che va
cercata l’insolvenza, non fuori, è contro noi stessi l’ardua pugna, Vacca ce lo
ricorda, senza l’ausilio di tautologie, ma andando direttamente all’osso, al
nervo, dove fa più male. Malgrado ciò, la poetica dell’autore non si chiude in
un nichilismo passivo, offre, invece, un pharmakon
incorrotto e altamente dinamico, se solo si è pronti a vedere con occhi avvezzi
all’onestà intellettuale: «Tutto ha una misura» – scrive il poeta – «perché
tutto significa» (La grazia è nel senso,
p. 45), e se l’uomo, in senso protagoreo, è “misura di tutte le cose”, per il
poeta può esserlo solo in relazione al dare, al donarsi o, supremamente,
all’amare: è lì tutto il senso. Una luce, che si faccia antitesi del languore
cadaverico delle odierne Carmilla, dedite alla non-vita ai margini
dell’esistenza, esiste, è reale, e anche se è difficile coglierla in mezzo agli
abbagli, alle menzogne spacciate per verità, è nostro compito aguzzare la vista:
«Deve esserci un’uscita / l’oscurità non può sempre vincere [...]» (Con le unghie, p. 53), e quell’uscita
non dev’essere una via di fuga, un estraniarsi sornione dal proprio Dasein, ma una ricerca fatta di carne e
sangue, da tenere stretta “con le
unghie” ben piantate nelle piaghe dei giorni: «Lottiamo per la vita / in questo
vuoto che fa tremare tutto» scrive Vacca in questa lirica adamantina e incandescente.
Almeno un grammo di salvezza è un sì
alla vita, perentorio, contro ogni avversità, contro l’oscuro che avanza, a dispetto
del male, della vacuità e della mancanza.
Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in
giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora
alle pagine culturali di quotidiani e riviste. È redattore della rivista
«Satisfiction». Ha pubblicato: Nel bene e nel male (1994), Frutto della
passione (2000), La grazia di un pensiero (2002), Serena musica segreta
(2003), Civiltà delle anime (2004), Incursioni nell’apparenza (2006),
Ti ho dato tutte le stagioni (2007), Frecce e pugnali (2008), Esperienza
degli affanni (2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso
(2010), Serena felicità nell’istante (2010), Almeno un grammo di
salvezza (2011), Mattanza dell’incanto (2013), Sguardi dal Novecento
(2014), Luce nera (2015) - Premio Camaiore 2016, Vite colme di versi. Ventidue poeti dal
Novecento (2016), Commedia ubriaca (2017), Lettere a Cioran (2017)