QUASI RADIANTE di Martina Campi (Tempo al Libro)


Care amiche e cari amici di Linea Carsica, dopo una brevissima pausa, ritorniamo con una bellissima scoperta. Buona lettura. 







Quasi radiante di Martina Campi (Tempo al Libro)


            «A quell’ora il sole era
un occhio famelico:
si contendeva gli alberi d’ulivo
con la brezza in discesa dai monti:
ma tutto taceva nell’attesa
di irradiarsi deflorando ogni riparo oscuro,
o disgregarsi, decostruito come una macchina».
(III, p. 61)




È sempre un immenso piacere – dell’anima e della mente – incontrare la poesia, a patto che questa sia, oltre che bella, anche onesta. È il caso della silloge Quasi radiante di Martina Campi, Tempo al Libro, 2019. Si tratta di un’opera che taglia trasversalmente l’esistenza umana, andando al nocciolo della questione transitorietà-dissolvenza, già a partire dalle iniziali citazioni di Amalia Rosselli e Cristina Campo, due grandissime della poesia che l’autrice ci rimembra. La raccolta, divisa in sezioni, i cui versi sono preceduti da brevi prose poetiche, sprigiona una forza viscerale, che tuttavia si mantiene all’interno di una edificante sobrietà scritturale: «Io l’attendevo la pioggia purché facesse / da sé tutto il nero scompiglio / di cielo severo [...]» (p.19). Nella poesia della Campi le paure esistenziali sembrano lasciare il posto alla constatazione della transeunte condizione umana, del nihil metafisico che tutto sottende, con il quale occorre convivere: «Le falangi spezzate / sono terra cava / figlia di un padre deserto sterile / madre che contiene il nulla [...]» (p.25). La mancanza suggerita dal titolo del libro, insieme a un costante senso di vacuum, trovano una sorta di compimento nei versi dell’autrice: «Io randagio e mai compiuto / assolvo all’istante del dissolto / [...] quasi innocente, quasi radiante». (p.33). Il tema del “nulla”, del “niente”, appare un leitmotiv delle linee liriche in questione, come fosse un sottile, quanto inesorabile, filo rosso che attraversa la poiesis campiana: «La città fitta di polvere / si apriva sul niente [...]» (p.39) e ancora: «Quante battaglie per tanto nulla / [...] arcipelaghi di disperazione / ribelle all’abbandono dei vuoti». (p.41). Una nostalgia del tempo e dello spazio, forse della sostanza stessa dell’umano, o forse ancora una nostalgia delle “cose che mai sono state”, parafrasando Pessoa, prende forma in versi dall’afflato intimistico e obliquamente gotico: «Le strade più sicure / erano  sentieri segnati dal tempo, ora insabbiati / tra luci e ombre / e resti abbandonati / lasciati ignari in balia / del non ritorno». Ecco allora che, quasi per paradosso, origina l’indistinto, l’indefinito, ciò che dalla notte dei tempi rende inquieto l’animo umano e, accanto a questa apparizione dell’invisibile, gli inganni cominciano a dissolversi, in un flusso di memoria dove il cruccio melanconico si mostra in tutto il suo struggente esporsi: «All’occhio sgomento lo sgranarsi / era membrana sottile inganno / della memoria gli edifici del centro, / diramazioni in attesa di passi le strade, / un mostrarsi muto alla malinconia». (p.47). Fitte di meraviglia, poi, sono le immagini ricorrenti, come quella della pioggia, che colorano di senso universale l’intera raccolta. E poi ancora l’ombra – le ombre, la strada – le strade, e altre figure poetiche che l’autrice pone con maestria all’interno di un mondo immaginativo unico e affascinante. Così, l’eco dannunziana di «Ascolta», incipit della lirica a p.65, appare una dichiarazione d’amore al verso, a questo sublime modo di esprimere l’esserci e le sue connotazioni, che la Campi protegge nella parola, con ammirevole cura. 

Lettura consigliata.

 


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