IL SUONO DELL’OROLOGIO di Anastasia Leo (Luca Pensa Editore, collana Graffiti)


Il suono dell’orologio, opera prima di Anastasia Leo, giovanissima autrice salentina, è una raccolta poetica di trenta liriche (tutte numerate) che appare sospesa – se possibile – tra Simbolismo francese e Beatnik americano, ma mortiferamente viva e a suo agio nella nostra terra, a meridione dell’Occidente. Ovvero sia: non si lasci il lettore fuorviare da un approccio superficiale in cui vengono all’occhio questi pur indubitabili accostamenti stilistici, il versificare della Leo è personalissimo e meglio può essere colto tenendo presente che il Salento ha un lato oscuro ricco di mistero e suggestioni dall’afflato gotico: “L’oblio di / un’esistenza / senza vita … / L’angoscia di un muto silenzio / raccontato ai / cancelli chiusi / di un cimitero in croce …” (1), tanto per cominciare. Con una forza evocativa terribile e dolce al contempo, che solo un’anima adolescente può far materializzare su carta, l’autrice ci dona tuttavia frangenti di inaspettata maturità: “Le parole senza senso / che escono dalla bocca / degli uomini / sono come le foglie d’autunno / al vento: / scappano dalla propria origine / senza rendersene conto” (14) . Forse in Anastasia Leo scorre un DNA poetico, come chiosa Vito Antonio Conte nella postfazione, oppure è la sua anima adolescente, cui Stefano Donno rende giustizia nello scritto introduttivo, a segnare la profondità di queste liriche; quello che sembra fuori dubbio è che l’autrice faccia la sua discesa nell’immensità del suo giovane Io e ne esplori le sue più intime cavità: “… E lentamente muori / nei tuoi silenzi di ghiaccio / nei sogni che fai di notte / … E lentamente muori / mentre con lo sguardo fisso di fronte a te / accarezzi il gatto / seduto sulla pesante poltrona …” (8). Ciò che colpisce, al di là della passione presente nella raccolta, è la crudezza di alcuni passaggi: “Ho scritto merda sulla carta igienica… /  Non ho grana nemmeno per comprare / uno schifo di pezzo di carta…” (3), a conferma che l’autrice sembra essere ben consapevole, in barba all’età anagrafica, che la poesia non è quel contenitore di melensa leggiadria che aleggia sulla bocca dei meno ferrati, ma è fuoco e fiamme, o struggente abbandono: “Nei misteri della notte / si nascondono / i sogni perduti / per sopravvivere alla morte…” (20). Un abbandono alla poesia pura (non purista!), una poesia che si trova ovunque si riesca a scovarla e metterla nero su bianco, anche in quei locali fumosi e claustrofobici che la Leo, tra le righe, evoca. Sogni e incubi metropolitani che ammiccano al desertico onirismo del Sud di tutto, dove è facile perdersi e dove solo la poesia può addentrarsi. Atmosfere ad un tempo rarefatte e al vetriolo quelle dipinte nella raccolta, luoghi arcani che la poetessa frequenta come suo habitat naturale e che, seppur in filigrana, non ha paura di mostrare.
Il suono dell’orologio batte sulle tempie con un ritmo ossessivo e, così facendo, apre le porte a sensazioni che oggigiorno sembrano nuotare nel torpore, ma che, con tutta evidenza, non sono morte.

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