L'artista e il "caporale" - Il Salento e la finta democratizzazione dell'arte
Condizione
necessaria, ma non sufficiente, perché un’opera d’arte – sia essa un dipinto,
una scultura, un’installazione, un libro, una pellicola – possa camminare da
sola è che l’opera stessa abbia un valore artistico. Un’ovvietà direte voi.
Molto di più diciamo noi: una questione ontologica. Un’opera d’arte che dentro
di sé non avesse l’arte sarebbe un paradosso, un involucro cavo, un guscio
d’uovo privo d’albume e tuorlo. Ebbene, nel 2013, nel Salento, tutto ciò non è
cosa ovvia, tutt’altro. Dietro una finta democratizzazione dell’arte – finta
perché non accessibile a tutti – si nascondono insidie di natura economica (chi
l’avrebbe mai detto?!) sconfinanti in una forma di fine caporalato. Questo non
soltanto per quanto riguarda l’utenza, che fatica ad usufruire dell’arte per
ragioni legate al denaro, ma anche per ciò che concerne la nascita e lo
sviluppo dell’opera d’arte e, di conseguenza, del percorso dell’artista. In un
circuito artistico (ma si può davvero chiamare artistico un circuito così
impostato?) il più delle volte tenuto in scacco da baroni che assurgono a
controllori e giudici di qualunque cosa graviti intorno alla cultura, l’unica
cosa libera rimane è l’idea dell’artista. Libertà che però termina una volta
che l’idea si concretizza e l’opera prende vita materializzandosi. Da quel
momento in poi inizia il calvario dell’artista. È cosa nota che se un artista
crea un’opera d’arte la sua intenzione, salvo poche eccezioni di artisti che
fanno arte per se stessi (e qui sarebbe bello innescare la miccia di un
dibattito sul senso dell’arte per l’arte e dell’arte per se stessi), è di
proporla al pubblico. Già, ma dove? In quale luogo fisico? E con quale
risonanza? Nonostante la tanto decantata rivoluzione telematica, che pur
offrendo a milioni di internauti una visibilità fino a poco tempo fa
sconosciuta e insperata, nelle piccole realtà provinciali questo non è bastato
a togliere dai più la zavorra del favoritismo. E in altre occasioni dicevamo a
proposito del “finto intellettuale”, sempre pronto a prostrarsi pur di avere i
suoi cinque minuti di gloria, così si può dire, in non pochi casi, anche
dell’artista vero che, trovandosi a dover scegliere tra l’anonimato più
assoluto e una parca visibilità, non di rado sceglie il compromesso. In altre
parole, il vecchio do ut des è ancora
vivo e vegeto. Se a questo nepotismo allargato aggiungiamo il principio di
conservazione dei grandi vecchi, che pur di non trapassare a miglior vita
artistica, elargiscono col contagocce occasioni di merito ai giovani per paura
di venire spodestati da chissà quale trono, i giochi sono fatti. Non stiamo
parlando in astratto. Facciamo un esempio. Sei un giovane artista visivo.
Diciamo che dipingi e vuoi esporre le tue opere. Bene, se sei bravo e
intraprendente (e magari anche outsider) riuscirai a trovare da solo dei luoghi
d’arte dove poter allestire una bella mostra. Ma mettiamo il caso che tu voglia
esporre in luoghi più convenzionali, come gallerie, musei, edifici storici. La
prima cosa che ti verrà chiesta saranno le tue credenziali. Come dire, a parte
un curriculum, l’esperienza e le mostre già fatte. Quella stessa parola che
risuona ogni volta che uno va a fare un colloquio di lavoro. E allora fanno
bene i comici a farne satira: “Se uno non lo fanno lavorare mai perché non ha esperienza…
mi dite come se la può fare questa benedetta esperienza?”. Ecco il punto
cruciale: se un giovane pittore non ha mai esposto da nessuna parte ha bisogno
del pezzo da novanta che gli apra le porte dei luoghi dell’arte. Dicevamo
poc’anzi che non stiamo parlando in astratto. In Germania, tanto per fare un
esempio, i giovani hanno la possibilità di avvalersi di vantaggi che in Italia
(e più marcatamente nel meridione) possono solo sognare. Vantaggi tangibili,
veri, materiali. Si possono esporre le proprie opere in edifici appositamente
organizzati (non solo capannoni ma anche palazzi storici, musei, ecc.); si può
usufruire dei fondi che lo stato mette a disposizione per incrementare
qualsiasi forma d’arte; si possono consultare sportelli informativi (realmente
funzionanti) che indicano al giovane artista i passi logistici, burocratici e
documentali più inerenti al suo percorso
creativo; si ha la possibilità di sfruttare la visibilità mediatica che le
istituzioni tedesche, a vario titolo, mettono a disposizione dei giovani
artisti; si indicono concorsi con premi che possano dare una spinta reale e non
soltanto psicologica (pur importante, per carità!) all’artista emergente. Non
parliamo soltanto delle arti visive, ma anche di poesia, letteratura, musica. Il
tutto perché in Germania (ma anche, con le dovute differenze, in Olanda,
Belgio, Francia, Lussemburgo, Regno Unito, Islanda, e ci scusino i paesi che
abbiamo dimenticato) hanno capito che la cultura “si mangia” e che il “pane e
Divina Commedia” frutta oltre che benessere intellettuale e spirituale anche
benessere di moneta. In Germania se uno è un artista può vivere d’arte, uno
scrittore può vivere dei suoi libri, un musicista della sua musica, perché lo
stato ha capito che se l’arte e la cultura vengono aiutate aumenta la qualità
della vita. E che dire poi degli ausili dati a chi, pur lavorando, coltiva
interessi artistici? Insomma, per noi poveri italiani pura fantascienza. Che
fare dunque? A chi prospetta facili soluzioni rispondiamo che bisognerebbe iniziare
col porsi delle domande (domande che noi ci siamo poste e continuiamo a porci).
Porsi degli interrogativi non è cosa facile. Soprattutto non è facile ribadire
i concetti a tamburo battente. Non è facile essere ascoltato. La maggior parte
di coloro che ascoltano si stanca presto delle battaglie. E pretende che anche
gli altri si stanchino. Gli irriducibili, quelli che non vogliono arrendersi ad
uno stato di cose inerte, vengono ad occupare un posto del tutto marginale
nella mente di questa fantomatica maggior parte. Crediamo allora che un
cambiamento (sì, abbiamo detto cambiamento, una parola che di questi tempi fa
venire l’orticaria anche ai più stoici) debba iniziare da questa doppia azione:
parlare e ascoltare. Due verbi che includono un movimento, un tendere, un
allungarsi-verso. Parlare e ascoltare: due atti precipui dell’umano che non
dovremmo mai stancarci di praticare.
Articolo pubblicato sul numero del 20 febbraio 2013 del quotidiano "Il Paese Nuovo"