LA MARCIA DELLE LOCUSTE



La vecchia Madre di tutte le matasse malriuscite, di tutti i gomitoli confusi e mai sbrigliati, degli infiniti e opprimenti grovigli che avvolgono i pensieri dell’essere umano e non l’abbandonano se non in pochi, infinitesimali momenti, è sempre gravida. Il legame che questa puerpera cuce coi figli a venire è forte come l’acciaio, tenace come l’aquila, robusto come il nervo. La scorza nerboruta di quel parto plurimo si vede fin dai primi passi degli infanti, del tutto somiglianti alla concepente. È proprio questo il caso di dire che i frutti non cadono lontani dall’albero. La caratteristica peculiare di questi esseri-groviglio è, senza ombra di dubbio, la pretesa. In altre parole essi applicano alla lettera, con precisione chirurgica e un’incredibile costanza, il teorema del “tutto mi è dovuto”. Questo a prescindere dal grado di conoscenza, vicinanza, simpatia, empatia, che essi hanno con gli interlocutori. Anzi, più la persona che interagisce con loro è estranea, più pretendono. Senza il minimo pudore. Da dove nasce questa pulsione alla pretesa? La risposta non può essere che multipla. Può nascere da un ambiente famigliare che abbia educato alla superiorità, alla sopraffazione (fisica e psicologica) dell’uomo sull’uomo; oppure, più semplicemente, può svilupparsi a causa di una naturale tendenza di certi soggetti alla procrastinazione cronica dei loro doveri – che qui non sono da intendere come imperativi morali e/o sociali bensì come pensieri-azioni da portare a compimento per la stessa sussistenza psicofisica dei soggetti. Il problema che vogliamo mettere in risalto, il punto centrale della questione, non è di carattere etico-pratico: qui non si vuole sindacare sulla correttezza o scorrettezza di questo agire. Il fine della nostra discussione è di carattere sostanziale. La tematica che intendiamo affrontare riguarda l’Essere. Sì, ancora una volta, a distanza di tanti secoli dal primo filosofare, la questione dell’Essere torna prepotentemente all’attenzione del pensiero. Premettiamo, senza alcun indugio, che per noi non ha nessuna importanza chiedersi se abbia un senso, nel terzo millennio, riflettere sull’Essere e le sue declinazioni. Il nocciolo duro che costituisce il nucleo della riflessione è l’individuazione di quel particolare tipo di “essere” che è l’essere pretendente, a cui daremo il nome di “locusta”. La scelta di questo nome appare quanto mai facile. La locusta è vorace, divora tutto ciò che incontra sul suo passaggio. Ebbene, quale altro animale potrebbe meglio rappresentare chi divora, senza il minimo riserbo, le vite degli altri? Nella nostra contemporaneità, nel mondo del “tutto subito” ad ogni costo, l’arrotondamento dell’uomo all’animale appare una prospettiva tutt’altro che fantastica. La soluzione? Non c’è. Al limite si può sperare in delle soluzioni. Sì, ad una domanda molteplice occorre dare una risposta molteplice. L’importante è restare umani, se possiamo.


Articolo pubblicato su Pagine del 02/06/2013, www.ilpaesenuovo.it

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