CHE POSTO DAI ALL'AMORE



Tutti parlano d’amore. A tutti piacciono le belle parole, la dolcezza. Tutti, poi, sembrano fremere per un abbraccio, un bacio, delle carezze. Si cerca complicità, comprensione, simbiosi. Poi però ci sono le bollette da pagare, le riparazioni da eseguire, la spesa da fare. Allora una consistente parte di quei “tutti” ti fa capire che le belle parole non servono, e che rimangono inutili decorazioni, inascoltate. Così come non servono quei tanto sospirati baci, abbracci e carezze. In tal modo, non si pongono sullo stesso piano movimenti dell'anima e comportamenti reali, relegando i sentimenti nello stanzino delle occasioni felici, da rispolverare ogni tanto, quando tutto va bene. Guai ad essere dolci, gentili e premurosi quando si ha un diavolo per capello. Sarebbe qualcosa che andrebbe a cozzare con lo stato d’animo pragmatico-realistico-scontrista di chi non fa altro che pensare a grane concrete, reali, quotidiane. È la sempiterna legge del J’accuse nei confronti dei presunti comportamenti dettati dall’illusione, dal non avere i piedi per terra, dal non pensare alle cosiddette “cose serie”. È una legge tenace, cui è difficilissimo contravvenire, praticata con la cocciutaggine e la dabbenaggine di chi ne è talmente succube da non rendersi nemmeno conto dello strapotere che essa esercita sull’individuo. Perché è stata introiettata e somatizzata; perché quei «beni superflui che rendono superflua la vita», come diceva Pasolini, sono sentiti profondamente come necessari; perché non si può fare altrimenti quando gli oggetti sovrastano gli uomini e l’avere – qualunque forma assuma – ghettizza l’essere. Certo, è dura parlare di “rinuncia all’avere” in un momento di così grande crisi economica, qualcuno potrebbe additare al pazzo. Qualcun altro potrebbe dire che soltanto chi possiede può parlare bene del non possedere. Ma qui non si propongono rinunce al necessario, quello vero. Forse aveva ragione Vito Antonio Conte quando affermava che la crisi non c’è, che qualcuno l’ha inventata per noi, che non ci appartiene. Un fatto però sembra indubitabile: nella condizione di estrema sudditanza in cui ci troviamo nei confronti dell’oggettità materiale, non solo non abbiamo più slanci di dolcezza ma all’orizzonte compare una sorta di nausea, di rigetto nei confronti di chi, nonostante tutto, imperterrito continua a mostrarsi dolce, tenero, comprensivo. Nasce, quindi, nella mente di chi ha voluto conservare questa dolcezza, l’idea che l’altro non creda davvero in quello che dice in fatto di sentimenti, e che tutte le parole sull’amore, la dolcezza e la tenerezza, altro non siano che parole, appunto; vuoti gusci che puntualmente si rompono davanti alla grezza realtà. Non possiamo essere perennemente contenti, tantomeno felici. Sarebbe forse chiedere troppo a degli esseri imperfetti quali siamo, sempre in lotta contro qualcuno o qualcosa. Ma almeno potremmo cercare di non essere ipocriti. Perché fingiamo di credere in ciò cui in realtà non crediamo? Perché sprecare fiumi di parole che si intonano con amore, cuore, tesoro, vita insieme, rispetto, se poi alla prima difficoltà ci dimostriamo rinunciatari, reticenti, inconsolabili? La più grande frustrazione che si prova è quella legata all’impotenza di non poter consolare. E per consolazione non intendiamo la pacca sulla spalla del “tutto andrà a posto”, intendiamo piuttosto l’avere la possibilità di essere accanto alla persona che amiamo; una possibilità vera, reale, tangibile, che solo la persona stessa può darci. Non si può stare accanto a qualcuno che non vuole avere nessuno al suo fianco; altrimenti il dialogo, la condivisione e la comprensione non sarebbero che involucri ripieni di nulla. Esistono gli sbalzi d’umore, esistono le giornate in cui siamo particolarmente nervosi e intrattabili, senza saperne neanche bene i motivi. Ma queste oscillazioni non debbono allontanare le persone che amiamo, non dobbiamo spingerle al di là di un limite invalicabile. Né, tantomeno, dovremmo chiuderci in sterili silenzi. Non ho mai condiviso la massima secondo cui il silenzio è d’oro. Meglio sempre parlare, a costo di dire una marea di insulsaggini. Meglio essere ripreso per aver detto una sciocchezza piuttosto che arrovellarsi nell’incertezza di un silenzio. Tra tutti gli esseri del creato siamo gli unici – o almeno così crediamo – ad essere dotati del linguaggio, della parola. E allora usiamoli! Parliamo, parliamo, parliamo. Infischiamocene delle massime e delle canzoni che ci ripetono la lezione del silenzio. Parliamo. Purché oltre a parlare ci sia spazio per l’ascolto. Ecco, parlare e ascoltare. Sempre. Senza mai stancarci. E cerchiamo la dolcezza, cerchiamola nel profondo delle nostre vite, non accontentiamoci di belle parole e di qualche cioccolatino. Né del regalo costato un occhio della testa. Trasformiamo le parole in azioni. Rendiamole vere, reali. Impariamo a vivere per come parliamo. Cerchiamo di fare quello che diciamo, pur nella naturale incoerenza umana. Se diciamo “amore”, “dolcezza”, “tenerezza”, “comprensione”, “rispetto”, cerchiamo di viverle realmente quelle parole oltre che pronunciarle. Facciamolo. Presto. Ce n’è bisogno ora, subito.

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