LE MANI SU GIOVANNI - STOP BULLYING

 


Le mani su Giovanni - Stop Bullying

 

 

Ai tempi delle scuole medie, Giovanni veniva spesso bullizzato per via del suo fisico esile. I suoi compagni di classe lo chiamavano “il rachitico”, e non perdevano occasione di schernirlo, delle volte anche pesantemente. Spesso era vittima di scherzi, come quella volta che fu attirato in una campagna lontana dal centro abitato e legato a un albero per più di un’ora, per poi essere liberato quando ormai piangeva disperato. Minacciando di raccontare tutto agli adulti, Giovanni fu zittito dagli altri con queste testuali parole: «Stavamo scherzando, non vorrai essere preso per un bambino piccolo che va a piangere dai grandi!». Così Giovanni, preso da una punta di orgoglio, rimase in silenzio, leccandosi le ferite e ingoiando il rospo. Ma l'indomani, i suoi “amici” gli stavano preparando un altro scherzetto, come amavano chiamare quelle crudeltà gratuite cui sottoponevano il ragazzino. Gli dissero: «Vediamo se hai il coraggio di arrampicarti su quel muro e poi saltare dall'altra parte». Giovanni guardò il muro, era alto almeno tre metri. Gli altri stavano aspettando come rapaci ciò che in fondo già sapevano: il piccolo rachitico avrebbe rinunciato alla prova. Giovanni, infatti, abbassando la testa, rinunciò tacitamente a quella stupida “impresa”. Un comportamento del genere era intollerabile per il branco, che si scagliò con pugni, schiaffi e calci sul ragazzino. I volti dei suoi piccoli aguzzini si stamparono indelebilmente nei suoi occhi, come un marchio a fuoco. Li vedeva a ogni angolo di strada, nella sua cameretta, gli facevano visita nei suoi incubi. Non lo lasciavano mai in pace. Dal momento di quella tremenda aggressione, Giovanni subì un trauma, che lo portò ad avere una paura nera per chiunque alzasse la mano, fosse anche solo per salutarlo. Appena qualcuno faceva il gesto di protendere il braccio in sua direzione, lui si ritraeva atterrito. Giovanni si copriva il volto con le braccia e con le mani, come a volersi proteggere da eventuali colpi. E così per tutta la vita, fino ai ventisette anni. Laureatosi in ingegneria informatica, divenne un bravissimo programmatore, richiesto dalle aziende e dai privati. Aveva scritto perfino un libro in cui parlava dei più innovativi linguaggi informatici. Un giorno, mentre teneva una conferenza che aveva per tema proprio il contenuto del suo libro, notò che tra il pubblico era presente uno dei bulli che amavano vessarlo da ragazzino. Provò una strana sensazione, che non seppe decifrare. Al termine del suo intervento, durante il momento della firma delle copie, il bullo si avvicinò alla scrivania. Era sorridente e, con una copia del libro in mano, si complimentò con Giovanni che, un po’ a disagio, gli rivolse un sorriso di circostanza. Prima di andarsene, il bullo, sempre sorridente, fece un gesto velocissimo, non visto nella confusione di fine evento, come a voler colpire Giovanni con il libro che aveva in mano, appena autografato. Giovanni, che adesso non era più l’esile ragazzino delle medie, ma un ragazzone grande e grosso, guardando il bullo, che al suo confronto appariva gracile e mingherlino, pensò, meravigliandosi di se stesso: Se stavolta veniamo alle mani, finisce diversamente, perché adesso sei tu ad essere “rachitico”. Ma, sapendo che quel modo di fare non gli apparteneva, abbandonò presto l'idea di un regolamento di conti tardivo. Il pensiero dello scontro lasciò il posto a un interrogativo, che Giovanni indirizzò a sé, ma che in realtà avrebbe dovuto rivolgere al bullo: Come è possibile che tu, bullo, a distanza di così tanto tempo, con tutto ciò che è accaduto nel mezzo, con le nostre vite così cambiate, possa ancora fare un gesto del genere? Era come se in quel frangente Giovanni avesse capito il rapporto che c’era tra vittima e carnefice, tra preda e predatore. Chi nasce predatore conserva dentro di sé una specie di diritto sulla preda, come se fosse sua, come se gli appartenesse. Nonostante quest’ultima magari è cambiata, divenuta forte, probabilmente più forte dello stesso predatore. Il predatore perde il senso della realtà, per lui la preda rimane sempre tale. Il predatore non accetta il cambiamento, men che meno quello della preda, piuttosto preferisce farsi sbranare che riconoscere il valore di quella che è ormai una ex preda. Giovanni, forse sbagliando o forse no, pensò, ridendo, che chi nasceva quadrato non poteva morire tondo e viceversa. Poi, però, vergognandosi un po’ di quell’idea fatalista e piccolo-borghese, disse all’amico d’infanzia: «Simone, mi sa che noi due dobbiamo parlare». E Simone, finalmente, forse per la prima volta nella sua vita, non si sentì un predatore, un bullo, ma soltanto un ragazzo che aveva ritrovato un amico creduto perso tra le maglie dell’ignoranza.

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