INTERVISTA A BIANCA SORRENTINO



Care amiche e cari amici di Linea Carsica, di seguito vi proponiamo un'interessantissima intervista a Bianca Sorrentino, studiosa del mondo classico, che ringraziamo per la disponibilità e profondità di pensiero. Buona lettura.


 

  1. Gilles Deleuze, alla domanda «A cosa serve la filosofia?», sosteneva che bisognava rispondere in maniera aggressiva, poiché era la stessa domanda a essere «ironica e pungente». Ebbene, ogni volta che la questione verte sulla letteratura, sulla filosofia o, più ampiamente, sulle cosiddette discipline umanistiche, ci ritroviamo di fronte a questo problema: «A cosa servono?». Secondo te, tutto ciò rappresenta un problema reale o surrettizio? E se è reale, l’interrogativo è legittimo o mal posto?

Si tratta di un finto quesito, perché chi provocatoriamente chiede a cosa servano le famigerate “lingue morte” ha già formulato la sua sentenza svilente. Nell’età della disattenzione, in cui input molteplici sollecitano continuamente la nostra mente, dedicarsi a qualcosa che non rechi un vantaggio subito quantificabile pare una velleità per una cerchia di eletti, una prerogativa di una casta di privilegiati che possono concedersi il lusso di impiegare il proprio tempo dedicandosi a ciò che “non serve”. A questo si aggiunga una forma di disprezzo per queste discipline, comunemente liquidate come noiose e anacronistiche, percepite come difficili e perciò indigeste, in un tempo in cui ci aspettiamo di ottenere tutto e subito, senza sforzo, a portata di clic. Se è vero che il problema dell’utilità dell’inutile comprensibilmente interessa solo il ristretto pubblico degli addetti ai lavori, sarebbe estremamente più rilevante, come collettività, interrogarsi sulle questioni che si celano dietro la smania di un’epoca che ha l’urgenza di rintracciare una spendibilità immediata e una ricaduta produttiva misurabile per ogni attività.

  1. Sempre verso Itaca, Pensare come Ulisse: due libri dai titoli emblematici, che dicono molto della tua ricerca, la quale abbraccia in modo particolare e intenso i classici, soprattutto Greci, ma anche contemporanei. Da dove nasce questo tuo amore?

C’è amore laddove c’è desiderio di conoscenza. Da bambina ho ascoltato i racconti del mito, che mi venivano donati come si fa con le fiabe, momento fondativo imprescindibile per la creatività, per l’immaginazione e per la costruzione della propria identità. Sono cresciuta sfogliando pagine illustrate con le storie incredibili degli dèi, poi da adolescente c’è stato l’incontro con il testo, con la lingua, e infine con il teatro, con la sua possibilità espressiva che infonde coraggio e affranca dalla solitudine. L’antico non mi è mai bastato, perciò mi sono messa in cerca di forme nuove, capaci di ribellarsi ai secoli e ai confini, per ribadire che quel che è stato non mette di accadere. In Irlanda, lontana dalle mie radici e dal futuro che avevo immaginato, ho provato a inventare una strada, a incamminarmi lungo un percorso che ancora oggi percorro con il medesimo, immutato amore.

  1. I classici, in modo particolare gli antichi, hanno davvero qualcosa da insegnare alle nuove generazioni? La domanda potrebbe apparire retorica o addirittura stucchevole, ma in un’epoca come la nostra, così superficiale e, per dirla con Bauman, «liquida», sembra quanto mai pertinente.

Gli antichi non sono nostri contemporanei – lapalissiano, ma essenziale ribadirlo, sovvertendo il titolo di un famoso saggio di Jan Kott dedicato a Shakespeare –, eppure con una forza impareggiabile ci scuotono dall’indolenza che minaccia questo nostro secolo intorpidito, che pare ormai rassegnato alla passività e all’apatia. La tragedia classica ci ricorda, per esempio, che fare esperienza del dolore altrui provandone compassione, avvertendolo cioè nella propria pelle, e sentire il terrore per la mostruosità che divora il destino dell’altro permette di raggiungere la catarsi, di purificarsi liberandosi dalla paura dell’irrazionale, dalle passioni travolgenti che spezzano l’equilibrio che dovrebbe sostenere le nostre vite. La pregnanza del teatro greco è legata peraltro al suo essere rito collettivo, momento democratico irrinunciabile per la cittadinanza: un aspetto, questo, che sarebbe importante recuperare, oggi che il senso di comunità risulta pericolosamente svilito, oggi che al concetto di società si sostituisce quello di agglomerato di individualità – perennemente connesse, è vero, ma spesso disperatamente sole e incapaci di sentirsi parte di un insieme, di condividere una visione comune.

Spersi di fronte all’orizzonte sterminato delle nostre paure, abbiamo bisogno di una bussola che ci indichi la direzione verso la quale incamminarci, ma che, d’altro canto, non ci imponga un cammino già segnato; i classici compiono proprio questo miracoloso incantesimo: ci mostrano le mille percorribili vie per andare incontro a noi stessi, senza ignorare quelle fragilità di cristallo che ci rendono perdutamente umani. Questo prodigio può avverarsi perché quei testi, che pure appartengono a un altro tempo e di quel tempo rivelano gli indiscutibili limiti, sono ancora capaci di prenderci per mano e condurci lontano, addirittura fuori di noi, in un altrove di sogno e di magia, per poi riportarci alla nostra essenza più profonda, permettendoci non solo di abitare momentaneamente un’altra storia, ma di esserne fatalmente abitati per sempre.

  1. La tua passione e la tua ricerca hanno incontrato il «mito», un elemento costituente della nostra identità occidentale, il più antico principio di conoscenza, purtroppo spesso bistrattato e relegato nella sfera della finzione. Qual è il tuo rapporto con questa dimensione?

Il mito era il racconto attraverso cui gli antichi davano una spiegazione ai fenomeni naturali che li circondavano: l’elemento fantastico costituiva dunque l’evoluzione di un processo che partiva dall’osservazione della realtà. Le conoscenze scientifiche attuali lasciano emergere, di quelle narrazioni, l’incorreggibile ingenuità; nondimeno oggi troviamo quelle storie ancora fatalmente affascinanti perché possiamo caricarle di significati simbolici, che riguardano universalmente l’umano, i suoi conflitti e il senso dello stare al mondo. Per motivare l’alternarsi delle stagioni, i Greci elaborarono il mito di Persefone, figlia della dea dell’agricoltura Demetra e rapita dal dio degli inferi Ade, destinata, per volontà di Zeus, a trascorrere sei mesi con la madre, periodo in cui la terra fertile avrebbe dato frutto, e sei mesi con lo sposo nell’oltretomba, a sancire un ciclo di apparente improduttività. Oggi, nonostante abbiamo ben altri strumenti per spiegare il fenomeno, possiamo ancora rivolgerci a questo mito per riflettere su questioni più profonde, come la necessità di contemplare l’ombra, insieme alla luce, ché nelle nostre vite non esistono solo campi di viole e candidi gigli, ma anche quotidiani inferni da attraversare. È lecito relegare tutto questo alla sfera della finzione, liquidandolo con snobismo o disinteresse? In un mondo che si arrende alla letteralità dell’esperienza, sarebbe invece importante recuperare la dimensione del simbolo, per cogliere quei significati che, solo traslati sul piano dell’immaginazione, possono assurgere a quell’universalità in grado di parlare a tutti.

  1. Seguendo il tuo percorso, abbiamo osservato, con immensa gioia, che hai portato la tua conoscenza e il tuo amore per i classici nelle scuole. Puoi parlarci di queste tue esperienze?

Esperienze indimenticabili per la loro unicità. Si tende a pensare che questi temi possano coinvolgere solo gli studenti dei licei classici, dando per scontato che l’approccio settoriale sia l’unica scelta possibile. Come si spiegano allora l’interesse e l’entusiasmo che ho riscontrato trasversalmente nei licei scientifici, nei licei socio-psico-pedagogici, negli istituti tecnici (e persino nell’Università della Terza Età)? Il segreto, io credo, risiede nell’accessibilità: è necessario esprimersi in una lingua comprensibile a tutti, senza per questo appiattire i concetti, anzi valorizzandone la complessità e avvicinandoli al sentire di chi ascolta. Oggi peraltro è invalsa la buona pratica di mettere in scena spettacoli classici nelle scuole, garantendo agli studenti l’opportunità di fare esperienza del limite, della crisi, dell’orizzonte, la possibilità di identificarsi nelle smaniose attese di Telemaco e nell’odio febbrile di Elettra, che lentamente consuma. I laboratori educano alla solidarietà, mettono faccia a faccia con le proprie timidezze, esortano alla ricerca di un equilibrio pur nella consapevolezza che esso può continuamente essere messo in discussione; nella condivisione della sacralità dello spazio scenico, i ragazzi scoprono che esiste un patto da sancire tra sé e le assi del palco, tra attori e pubblico, un accordo che porta il nome incorruttibile di “fiducia” e che va lealmente onorato anche da chi resta dietro le quinte (autori, traduttori, scenografi, costumisti, maestranze, produttori). Tutti hanno un ruolo insostituibile nella riuscita dello spettacolo e la cooperazione implica il riconoscimento dell’importanza del più piccolo gesto dell’altro, dell’universo di significato che si cela dietro il dettaglio. Spesso chi intraprende un percorso teatrale a scuola ha contezza dello sforzo che sostiene l’evento finale: la messa in scena è solo il culmine gioioso di un cammino costellato di inciampi, fatica, dubbi; la rappresentazione cui dopo mesi di prove si riesce a dar corpo è il risultato di un impegno condiviso, di dissonanze che si ricompongono in un’agognata armonia, di personalità che si scontrano fino a sperimentare la riconciliazione e talvolta il necessario affiatamento. Per un adolescente spaventato dalla solitudine, il teatro è comunità; per un giovane atterrito dal chiasso della folla, il laboratorio è ricerca della propria voce. La pratica del palcoscenico al tempo stesso infonde coraggio a chi si sente sperduto – e trova invece una tradizione viva e vibrante alle sue spalle – e lascia intravedere l’occasione di contribuire al potente spettacolo del mondo con un verso, il proprio.

  1. Un saggio di Nuccio Ordine, uscito qualche anno fa, intitolato in maniera significativa L’utilità dell’inutile, poneva l’accento sull’importanza di tutto ciò che non produce un’immediata e tangibile utilità, poiché tale «ricchezza immateriale», sembra non trovare più spazio nella nostra contemporaneità. Qual è il tuo pensiero riguardo a questa annosa questione?

La devozione nei confronti del mondo classico non ha una spendibilità immediata e misurabile con parametri oggettivi. La questione, allora, è evidentemente mal posta, perché tradisce la profonda arroganza di una civiltà che si illude di poter ottenere tutto e subito. Questa mentalità diffusa, che valuta ogni cosa in termini di utilità, ha alimentato in noi la falsa speranza di poter adottare a oltranza comportamenti che a lungo andare si rivelano insostenibili – non solo per noi, ma anche per l’ambiente in cui ci muoviamo –, pur di trarne un qualche guadagno che ci faccia sentire immediatamente realizzati, immuni al fallimento e all’infelicità. Segnali ormai inconfutabili ci rivelano invece, con un’urgenza sempre maggiore, che questi ritmi accelerati, questa smania irrequieta non sono compatibili con il benessere delle persone né con la salvaguardia dell’ecosistema. Probabilmente soltanto quando saremo disposti a scendere da questa giostra – o almeno a rallentarne la velocità – sapremo trovare gli strumenti per preparare quella rinascita che tutti auspichiamo. Conoscere e considerare con spirito critico l’eredità degli antichi rappresenta sicuramente un argine alla deriva verso cui si appresta una società che, con colpevole ostinazione, ignora la lezione del passato. Il mito potrà suggerirci una strada per non rassegnarci alle brutture di cui rischiamo di essere schiavi, nostro malgrado. La poesia forse ci verrà incontro con immagini capaci di far risuonare l’anima del mondo dentro l’anima dell’uomo: il giardino, la notte, il silenzio, la solitudine, la favola, la memoria. È questa la risposta dei poeti al nichilismo imperante che pretende di assoggettare l’universo all’ideologia della produttività. Alla poesia e al mito spetta dunque il compito di testimoniare, da un lato, il penoso mistero del divenire e, dall’altro, la rincuorante promessa di un vitale rinnovarsi. È una responsabilità nobile e altissima, che trascende la trita banalità dell’obiezione: “ma a che serve?”. L’apparente inattualità dell’antico esorta paradossalmente a tenere viva la propria passione civile, a colmare il vuoto circostante con i segni che fioriscono nelle terre del mito, nelle stagioni del visibile e dell’invisibile.

  1. Hai qualche progetto per il futuro? 

La ricerca è potenzialmente inesauribile: il viaggio verso Itaca prosegue e avrà presto un nuovo approdo. Soffiate venti favorevoli per questa inesausta navigazione!

 


Bianca Sorrentino
 (Bari, 1988), studiosa del mondo classico, si occupa del rapporto tra il mito e le arti contemporanee e cura cicli di incontri sulla poesia. Attualmente lavora in Rai. È curatrice di Mito classico e poeti del ’900 (Stilo Editrice, 2016) e autrice di Sempre verso Itaca (Stilo Editrice, 2017). Con il Saggiatore ha pubblicato nel 2021 Pensare come Ulisse.

 

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