FILOTTETE OVVERO I VUOTI ANCORA DA SFAMARE DI GRAZIA PROCINO (PEQUOD)
Filottete ovvero I vuoti ancora da sfamare di Grazia Procino (Pequod)
Di Metone, Taumacia e Melibèa
e dell’aspra Olizone era venuto
con sette prore un fier drappello, e carca
di cinquanta gagliardi era ciascuna,
sperti di remo e d'arco e di battaglia.
Famoso arciero li reggea da prima
Filottete; ma questi egro d’acuti
spasmi ora giace nella sacra Lenno,
ove da tetra di pestifer angue
piaga offeso gli Achei l’abbandonaro.
(Omero, Iliade, II, vv. 960-969)
Solo Filottete mi surclassava nell’arco, quando noi
Achei
ne facevamo uso nella terra troiana.
(Omero, Odissea, VIII, vv. 219-220)
Pensare sono qui
mi basta.
Pensare che la vita è tutta qui.
In questo istante.
Senza il buio di ieri o la nebbia di domani.
(G. Procino, Filottete ovvero I vuoti ancora da
sfamare, p. 43)
Fin
dai primi versi di questa pregevole opera di Grazia Procino, Filottete
ovvero I vuoti ancora da sfamare, Pequod, 2023, si percepisce il suo profondo
legame con i classici che, proprio perché tali, sono, come voleva Carmelo Bene,
fuori dal tempo e, dunque, in ogni tempo. Questa percezione è data non solo
dalla nomenclatura delle figure che fanno la loro comparsa – oltre al
personaggio richiamato dal titolo, vi sono Odisseo, Neottolemo, Palamede e
altri – ma anche dal modo in cui la poetessa presenta «eroi» ed «eroine» al
lettore. L’Io poetico di Grazia Procino, difatti, sembra divenire un tutt’uno
con l’umanità che emana dagli uomini e dalle donne della sua silloge, così Filottete,
in apertura, professa subito il suo destino: «È proprio vero che la malattia /
fa paura. Sono stato confinato a Lemno / solo. Da quando il serpente custode
del tempio di Crise / lasciò la sua impronta sul mio piede […]» (Filottete,
p. 9). La malattia, l’allontanamento, la solitudine: in altri termini, le
condizioni con cui spesso l’essere umano è chiamato a confrontarsi. D’altronde,
l’uomo si è sempre interrogato sul senso del dolore, della sofferenza e, infine,
della morte. Lo hanno fatto i poeti, i filosofi, i teologi e finanche gli
scienziati. Ognuno a modo suo, secondo il proprio sentire e le proprie
conoscenze. D’altro canto, come affermava Emanuele Severino, la filosofia nascerebbe
proprio da thâuma, ovvero dalla paura della fine e dell’infelicità. E
chi è più infelice di colui che è stato abbandonato da tutti? Grazia Procino ci
introduce alla poesia dell’umano, che spesso ha dimora tra gli ultimi, i
diseredati, coloro i quali sono lasciati ai margini della società. Pertanto,
alla pena di Filottete fa da contraltare il disgusto di Ulisse nei confronti
dello sfortunato costretto al confino: «Provo ribrezzo per Filottete. La sua
ferita / mi provoca il voltastomaco. Non ce la faccio / neppure a guardarlo in
viso […]» (Odisseo, p. 9). È questo un punto cruciale: la poetessa ci
spinge a guardare dove non vorremmo, poiché l’avversione del re di Itaca è
sovente la nostra. Ma non si tratta solo dell’istintiva repulsione che si prova
davanti a qualcosa di spiacevole, bensì dell’atavica paura di ciò che è diverso
o ignoto. Il pensiero corrente pontifica sulla semplificazione, identificando
la condizione del malato come un «essere altrimenti» rispetto alla normalità di
chi è in salute. Da qui la volontà di non guardare, di voltarsi dall’altra
parte, nel tentativo (malriuscito) di far scomparire il male. Nondimeno, vi è
chi, come Neottolemo, puntando gli occhi sull’affezione, comprende la
solitudine e l’abbandono dell’emarginato e l’ignoranza di chi, godendo di buona
salute, non riesce ad essere empatico con l’altro: «Chi è sano non sa cosa vuol
dire / essere in buona salute. Si dà per scontato di camminare, vedere,
allungare gli arti, / toccare, defecare, pisciare, copulare, parlare, gustare
cibi. / Chi è malato, oltre al suo stato penoso, / deve subire emarginazione e
vuoto […]» (Neottolemo, p. 10). L’universo poetico di Grazia Procino,
già apprezzato da noi nelle precedenti raccolte, trova in Filottete, a
nostro modesto avviso, l’acme dell’ispirazione, giacché accarezza l’uomo in sé,
nella sua essenzialità umana, spoglio da ogni superfluo orpello. La raccolta,
suddivisa in sei sezioni – Poemetto, L’ingiusta sorte dei vinti, Nel
nome del dolore, La fatica per la felicità, La morte fatale, La
cognizione del dolore (è impossibile non pensare a Gadda) – appare un
manifesto dell’umanità più autentica, con i suoi dolori, i suoi sentimenti, le
sue speranze. L’autrice dipinge con parole precise e chiare, i rischi e le pene
di una società che misconosce la persona per rincorrere incomprensibili e
astratte ragioni di palazzo: «In una notte senza sonno / sento confusamente il
racconto / di te, vergine, che non conobbe / mai amore, distrutta dal potere
[…]» (Ifigenia, p. 22). Tuttavia, nonostante le ombre, il buio, i lunghi
giorni del dolore, i versi di Grazia Procino non invitano alla remissività,
alla statica sopportazione della sofferenza, al contrario, sono frecce scoccate
con l’arco della passione e del vigore esistenziale: «[…] La vita è
avventatezza / lo strappo che non si ripara / miserie profonde / esercitarsi alla
gioia quando attorno / è solo pianto e sangue / e nugolo di insetti neri
spavaldi» (p. 41).
Lettura
consigliatissima non solo per gli amanti dei classici ma anche per chi è uso
immergersi con bramosia nella poesia contemporanea.