Spazio e tempo 0.4


Uno dei primi tentativi di affrontare la tematica relativa allo spazio, e più in generale, di approccio allo studio della natura, fu sicuramente quello dei pitagorici. Per questi l’idea di spazio era rapportabile agli iniziali progressi dell’aritmetica e della geometria di Pitagora.

Zenone di Elea, con i suoi celebri paradossi, mette in luce le difficoltà inerenti a uno spazio concepito dai pitagorici in modo geometrico, divisibile all’infinito. Le difficoltà logiche sollevate dagli eleati vengono aggirate da Leucippo e Democrito, che riducono lo spazio al vuoto infinito che circonda gli atomi materiali. Né Platone né Aristotele, però, accolgono il meccanicismo democriteo, sicché solo in età moderna l’idea di uno spazio vuoto elaborata dagli atomisti troverà nuovi sviluppi. Platone tenta nel Timeo una ripresa del concetto pitagorico di “regione” (chōra), intesa come spazio cosmico originario in cui la materia primordiale e le forme ideali si compenetrano dando vita all’universo. Per Aristotele, invece, lo spazio si identifica con il luogo (tòpos) o limite dei corpi; lo spazio dell’universo risulta pertanto dall’insieme di tutti i limiti corporei. Ne deriva che lo spazio è un’entità finita coincidente con l’ultimo cielo delle stelle fisse. L’universo aristotelico non è dunque situato in alcun “luogo” o spazio e non comprende, né all’interno né all’esterno, il vuoto.
In polemica con Aristotele gli stoici e gli epicurei pensano lo spazio come un’estensione infinita e incorporea, che si estende oltre i limiti del cosmo: secondo Lucrezio (De rerum natura, v), una freccia scagliata oltre i confini dell’universo finisce per sempre in qualche luogo o spazio. La concezione stoica, unitamente a quella neoplatonica, che considera lo spazio come un’emanazione dell’Uno divino, domina l’alto medioevo, mentre la tarda scolastica preferisce collegarsi alle concezioni aristoteliche.    


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