FILOSOFIA, POESIA E VERO


FILOSOFIA, POESIA E VERO. INTERVENTO DI GIANLUCA CONTE PER “ITINERARI METACREATIVI”

L’oggetto della ricerca filosofica è il Vero. Esistono argomentazioni filosofiche in risposta ai numerosi interrogativi che l’essere umano, in quanto pensante e senziente, si pone costantemente: “Com’è costituito l’universo? Siamo le uniche creature viventi oppure vi sono altre forme di vita? L’universo è un Cosmos ordinato e in continua evoluzione o un Chaos primitivo e nemico? Il nostro Esserci ha un senso oppure è il risultato di una originaria casualità?”. Queste sono soltanto alcune delle arcinote domande che accompagnano l’uomo fin dalle origini del pensiero filosofico. L’“amore della sapienza”, da cui scaturiscono l’impegno e la dedizione dei tanti adepti al supremo legame tra philêin e sophía, ha originato, nel corso dei secoli, a partire dai primi “fisici” fino ai nostri giorni, una costante forma di inadeguatezza, di inattualità del filosofo rispetto al tempo e allo spazio del suo vissuto individuale e sociale; cosa, tra l’altro, sorprendentemente ripresa da Nietzsche in un’epoca che egli riteneva governata dalla décadence del modello di pensiero e dell’uomo europeo. D’altronde, un pensatore unico come Pitagora si definì “amante del sapere” e non “sapiente”, attributo, quest’ultimo, che spettava soltanto agli dei, esseri immortali e onniscienti. Esisteva dunque, in germe, l’idea che il raggiungimento del Vero, inteso come infallibilità della conoscenza, fosse inarrivabile e che l’unica cosa certa, come Socrate si preoccupò di rilevare, fosse il “saper di non sapere” che caratterizzava la condizione umana e che pur costituiva una forma di sapienza e, in alcuni casi, di saggezza. Ma superando le facili suggestioni socratiche, che peraltro, è bene ricordarlo, seguivano la strada del bíos, del modo di vivere dell’uomo come forma di indagine e perseguimento dei valori etici ed estetici dell’esistenza, il pensiero filosofico si è spinto verso una volontà di superamento della riduzione della ricerca del Vero entro i limiti del mondo finito/fisico. Così, tà metà tà phisiká (al di là dell’accidentalità della nascita dell’espressione) si ponevano le basi per l’edificazione del Soggetto come elemento centrale del Cosmos, un universo ordinato secondo leggi da scoprire ed eventualmente assoggettare (F. Bacon). Stiamo parlando, dunque, di metafisica, della “filosofia prima” che ha come oggetto di studio “l’essere in quanto essere” e, peculiarmente, gli enti situati al di là del mondo sensibile, che mancano di materia. Il Soggetto, dunque, dovrebbe cercare di appropriarsi della cultura e del sapere, o almeno di alcune parti minute dello scibile, dimenticando il proprio limite maggiore, ovvero il fatto di essere “finito”; in altri termini, confinando nell’oblio ciò che Heidegger aveva individuato con la Geworfenheit, l’“essere gettato”. Identificare la certezza della coscienza con la verità, dunque, equivale ad oltraggiare il vezzo nietzschiano che aveva voluto contrassegnare la prima come “la voce del gregge in noi”. Tuttavia, se il soggetto filosofico che intraprende il cammino della ricerca del Vero servendosi della ragione corre il rischio di divenire sub-jectum, ovvero un elemento del Cosmos “assoggettato” ad alcuni ineliminabili problemi della conoscenza, il soggetto poetico possiede il Vero “per intuizione”, nell’immediatezza di una conoscenza che non necessita di alcun medium, se non dell’universo/multiverso mente-corpo del poeta. Filosofia e Poesia intersecano il Vero, a volte divergendo profondamente, a volte incrociando i rispettivi sentieri. Se Omero, Esiodo, Apuleio, Ovidio, Dante, Rilke («È un dei nostri? No, dai due regni / dilatò ampia la sua natura. / Più esperto inarchi i rami del salice / chi le radici ne ha conosciute» Sonetti ad Orfeo, I.6), Yeats, Calderón de la Barca, Blake, Campana, Borges – solo per fare qualche esempio – hanno indubbiamente superato il confine dell’umana finitezza, giungendo a toccare non solo altre dimensioni spazio-temporali ma anche nuove forme di gnosi poetica, non possiamo che ammettere la possibilità reale, concreta, della Poesia di riuscire dove la pratica della ragione ha fallito: giungere al Vero per analogia di essenti, per empatica osmosi di sostanza, attributo e accidente, accogliendo il prelogico (che non significa eliminare il Logos ma intuirlo, modificandone la portata conoscitiva), mettendo alla porta significante e significato, operando un’azione di pura Poiesis, di estatica manualità del verso. Il Poeta è, al pari dell’asceta e del mistico, un “filosofo del sovrasensibile”, capace sia di eludere la sorveglianza del materialismo di matrice ontologica e spingersi verso trasfigurazioni deittiche che incontrano la metacreatività del verbum, sia di codificare proto-poeticamente l’“armonia dei contrari” tematizzata da Eraclito, e ripresa in seguito dai pitagorici. Il Fuoco/Logos della Poesia e il panta rhei eracliteo si attraversano nelle complesse strutturazioni dell’ente-uomo e dell’ente-parola, componendo una miriade di reticolati poietici che tratteggiano l’armonia del Cosmos o il disordine del Chaos. La vita contemplativa suggerita dai pitagorici, che conduce al grado supremo di conoscenza, è la via della contemplazione della verità e, nel caso del sentire e della ricerca poetici, della considerazione del profondo rapporto verbum-veritas, nonché della relazione tra uomo e verità. Tuttavia, la parola è verità soltanto in rapporto con l’Essere, così come sembra suggerire Heidegger, insistendo sul senso originario del termine greco alētheia, ovvero “non-nascondimento”: essa si rivela nella manifestazione dell’Essere. Infine, l’identità della parola con l’autentica rivelazione dell’Essere, attraverso il verso poetico, rappresenta il congiungimento di un numero indefinito e incommensurabile di enti-parole-essenti, di cui l’uomo sembra essere l’estensione-intensione universale.

Fonte: itinerarimetacreativi.wordpress.com

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