I PRESUPPOSTI DEL DISABITARE di Gianni Zampi (Effigie Edizioni)



I presupposti del disabitare di Gianni Zampi (Effigie)







«Come iscriversi alla pace eterna

senza più solstizi o cardellini

meditanti su spalti d’argilla fino

a incontrare l’albero del vinco

che gelò sulla proda a macerare

essenze vegetali impiastri vocali

in elevazione e poi rivolgersi, ma

senza slancio, a quanto resta – vedere

quella montagna, come sta ferma».



(Come iscriversi, p. 13)





Se i social sono additati – spesso a ragione – come ambienti che danno modo di soddisfare certi deliri di onnipotenza e di trasformare punti di vista parziali in verità assolute, in qualche occasione – accade di rado ma vivaddio accade – possono rivelarsi strumenti atti alla condivisione del bello e allo sviluppo di una sentita partecipazione al fluire della cultura. È il caso de I presupposti del disabitare di Gianni Zampi, Effigie, 2019, pregevolissima silloge che ho conosciuto grazie a Piergiorgio Viti, il quale oltre ad averne scritto su “Poesia”, lo storico mensile internazionale di cultura poetica, ha condiviso questa bella scoperta sul social per antonomasia, Facebook. Ma, andando al punto della questione, la raccolta di Zampi si mostra fin da subito in tutta la sua deflagrante forza, potendo contare – e di questi tempi non è cosa da poco – su una scrittura che affonda le radici nei classici del Novecento e su una rara sensibilità: «Nella lunga esitazione hai scoperto / la palizzata, le trascorrenti stagioni / d’Appennino, i bagliori delle crepe - / l’infinita rarità del padre, allontanato / dal podere, che tramonta [...]». (Nella lunga esitazione, p. 14). In un quadro dove le terre della Toscana divengono quasi luoghi metafisici, dove l’estensione spaziale e la dimensione temporale incontrano, intersecandole, le vite di uomini, donne, bambini, anziani, si palesano i riferimenti alla guerra e al periodo postbellico che, inevitabilmente, hanno finito col segnare il senso del tutto: «[...] Tu parlerai al morto, al suo gesto sovrano / che intorno a sé ha sparso, rompendo i confini, / la sua ultima cena [...]». (L’ucciso, II, p. 27). La presenza, nel corpo del testo, di brevi brani in prosa, sembra avere quasi una funzione apotropaica, un affidamento dell’umano nelle mani di chi sa prodigarsi, come l’autore, in riflessioni pregne di una superstite fratellanza. È come se vi fossero, disseminate qua e là, delle effigi marmoree, issate a futura memoria del nostro passaggio su questa terra. Poi, puntualmente, vi è il ritorno ai versi che, pur nella loro complessità, si aprono a una resistenza che si fa compagna sia dell’individuo sia della comunità, nonostante tutto, malgrado la bruttezza del conflitto e lo sconforto che il non essere in pace lascia come eredità: «[...] Mi accerto che in tasca / ci sono le chiavi / e tutto è chiuso e tutto / è a posto». (Minerva, p. 37) e ancora: «[...] Poi sei arrivata, nembo improvviso, / carica di pane e vino / appena in tempo per salvarmi / da questa litania ostile». (Devozione, p. 39). È un’opera incredibilmente matura, quella di Gianni Zampi, che imprime un segno permanente di poesia in questi tempi “post-tutto”. Dopo la lettura di questo nobile scritto, mi sento di invitare vivamente le lettrici e i lettori di Linea Carsica a incontrare la poesia di questo autore, salutando con un breve ma prezioso brano di prosa presente nel libro:



«Non mi era chiaro come le cose si dispongono. Perché, per esempio, la sera, la massa appenninica, disposta in bande immobili e azzurrine, perde consistenza minerale. È così che la montagna, mutata in una sequenza di digradanti onde ottiche, raggiunge l’Adriatico?».



(Ruolo della montagna, p. 59)


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