LA MALATTIA DELLA POESIA DA TASTIERA

 




La malattia della poesia da tastiera

 

 

Ormai a tutti viene riconosciuto con estrema facilità il titolo di poeta: è sufficiente scrivere qualcosa di carino o melodrammatico (magari carico di un certo struggimento) e, naturalmente, andare a capo, come se l’ars poetica – con buona pace di Orazio – fosse alla portata di chiunque tenga un diario personale (che, per nostra sfortuna, a un certo punto decide di rendere pubblico). Il danno proviene da due orizzonti di pseudo cultura, in perfetta sintonia egoica: da un lato vi sono i vidimatori, coloro i quali attestano che il tal dei tali è un poeta, dall’altro vi sono quelli che accettano di buon grado (e senza provare la minima vergogna) di farsi cingere il capo d’alloro. E non sia mai che qualcuno metta in luce tale malcostume, si corre il rischio di essere tacciati di superbia, accademismo ed elitarismo. Insomma, la poesia è di tutti e tu non sei nessuno per mettere il bastone tra le ruote ai neòteroi da tastiera. Tipica la domanda (che ha il sapore dell’arringa difensiva): «Chi sei tu per dire cos’è e cosa non è poesia?». L’interrogativo, all’apparenza innocente e perfino legittimo, nasconde una diabolica faziosità di fondo: se nessuno ha il diritto di dire cos’è e cosa non è poesia, tutto può esserlo, anche certi obbrobri, spesso colmi di nefandezze grammaticali e sintattiche. D’altronde, dalle presunte licenze poetiche derivano tanti mali, tra cui uno dei più virulenti è l’uso smodato delle figure retoriche (metafora e sineddoche in testa). Banalità à go-go, superfetazioni mostruose di amori infranti, buoni sentimenti e principi attivi farmacologici (la poesia cura!), oppure ecatombi post adolescenziali che strizzano l’occhio al disagio psicosociale, il tutto con un modo di versificare che farebbe rabbrividire la peggior cronaca giornalistica. E la poesia civile? Un fantasma che si aggira esangue, come un’anima in pena, per le vie delle muse, occluse dal bon ton letterario o dai finti ribellismi dal sapore bambinesco (con cui il Pascoli non ha nulla a che fare). Nell’era dei social, che, parafrasando Umberto Eco – e sì, occorre ribadirlo! – ha dato voce a uno stuolo di imbecilli, il poeta da tastiera si arroga il diritto di dettare le nuove regole del poetare, e queste includono: riduzionismo, faciloneria, perbenismo ideologico, sgrammaticature (legittimate dall’ispirazione: ciò che conta è l’emozione!). Cosa deve essere, dunque, la poesia per questi individui? La poesia deve essere «pura» emozione. Così come l’arte. Un quadro (una statua, una canzone) deve emozionarti, deve contenere un messaggio immediatamente fruibile dall’utenza, senza abbandonarsi a complessità linguistiche che in pochi capirebbero e che, secondo i poeti da tastiera, rappresenterebbero soltanto un certo desiderio degli intellettualoidi di dimostrare la loro erudizione. Ecco, la tendenza è questa, abbassare il livello della poesia all’utente medio. In pratica, l’esatto contrario di ciò che auspicava Simone de Beauvoir. Il poeta da tastiera si rivolge a chi non ha il tempo di leggere (o dice di non averlo), a chi parla per cortissimi messaggi WhatsApp e spesso non risponde alle telefonate o si lesiona i neuroni davanti ai reality. Le «poesie da tastiera» devono essere brevi, immediate, dal lessico povero e, soprattutto, prive di qualsivoglia ricerca linguistica. E qui andiamo incontro a uno dei maggiori fraintendimenti artistico-semantici degli ultimi anni: l’idea che la poesia e la cura della lingua (non parliamo della metrica!) siano due universi paralleli che mai dovrebbero toccarsi. In altre parole, per i poeti da tastiera (tra cui ve ne sono alcuni anche molto noti e seguiti), l’emozione (poesia) e la ricerca linguistica (tecnica) non hanno possibilità di convivere, pena l’incomprensibilità da parte del vasto pubblico e la chiusura nella famosa torre d’avorio dell’intellettuale-poeta, cui si contrappone il «poeta del popolo», una sorta di Gracco della poesia. Ciò che sfugge ai più è la consapevolezza che la poesia (come ogni forma d’arte) non è solo emozione, ma è anche linguaggio, qui inteso nell’accezione più ampia possibile. Dal linguaggio non si sfugge. L’essere umano è zôon politikòn, come voleva Aristotele e, proprio per questo, uso al linguaggio. Dunque, l’emozione passa attraverso il linguaggio, che rappresenta la cifra della nostra contemporaneità ma anche della nostra formazione culturale. È vero, oggi non avrebbe alcun senso scrivere come Foscolo o Carducci, ma ha senso conoscerli, studiarli, apprezzare la loro maestria. Se gli utenti medi leggessero più poesia di qualità (e qui l’elenco di nomi sarebbe infinito) si renderebbero conto che la cura della lingua non guerreggia con l’emozione, ma ne è foriera.