PERSE TRA LE CARTE. duemiladieci-duemilaventi di VITO ANTONIO CONTE
Perse tra le carte. duemiladieci-duemilaventi di Vito Antonio Conte (Luca Pensa Editore)
Felicità è uno sguardo lungo
Quello che va oltre
Di là del resto
Di tutto quanto il resto
Follia è (anche) far finta d’essere felici.
(XVII, V. A. Conte, Persa tra le carte, p.
34)
Care
amiche e cari amici di Linea Carsica, dopo un lungo periodo d’assenza, torniamo
a parlare di poesia. E lo facciamo con una raccolta che lascia subito il segno
fin dalla prima lettura. Si tratta di Persa tra le carte. duemiladieci-duemilaventi di Vito Antonio
Conte, Luca Pensa Editore, 2020. Quella di Conte è una poesia sincera,
viscerale, lontana dagli imbelletti e dalla piaggeria. Così, con un incipit
dinamitardo, inizia il viaggio del poeta: «della morte trattengo il vestito
leggero / oggi sono pioggia d’aprile» (I, p. 15). Il libro, dunque,
lascia presagire un raccolto di saporosi quanto aspri frutti, che il lettore
non deve far altro che cogliere. Conte si muove a suo agio tra terre selvagge e
mari primitivi, incontrando la natura originaria dei luoghi e dell’umano.
Lontano, ma non troppo, appaiono figure, come muse ispiratrici, a destare
maliose ricordanze. E il tempo, quello del poetare, assurge a unico metro del
sentire: «hai tutto il tempo (mi dico) / non c’è più tempo (mi dicono) / e
allora scrivo poesia che non esiste» (II, p. 16). Ma, al di là
dell’onestà intellettuale dell’autore – cosa sempre più rara di questi tempi –
e dell’indiscusso valore dei presenti versi, ciò che solca il passaggio tra
egli e chi legge è l’incredibile senso della vita, quella vera, quella senza
fingimenti. Lo si respira a pieni polmoni nei rifermenti agli ascolti, quelli
duri e schietti di certa musica fatta di metallo, nei riferimenti al nulla,
questa dimensione così sfuggente eppure così prossima, negli spazi marginali,
quasi metafisici, dove si è liberi dalle sovrastrutture che la società ci cuce
addosso. E proprio lì, dove la terra è ancora agra, che il poeta trova il suo
riparo, la sua dimora, il suo ristoro: «Le poltrone di legno / Sotto il calanco
/ All’ombra / Dell’immenso carrubo / E questa infinitezza / Di pace e di
bellezza / Dov’è naturale stare / Contemplare e stare / Stare e lasciarsi
andare». (VII, p. 22). L’autore, con una disillusa illusione – mi si
perdoni l’ossimoro – della vita non parla soltanto, ma la cerca, l’annusa, la
stuzzica, con tratti poetico-pittorici che, a mio avviso, l’approssimano a un
certo sentire beatnik o alla ricerca artistica di Andrea Pazienza, il padre di
Zanardi e Pentothal, genio prematuramente scomparso. Una volta, mi capitò di
vedere una foto che ritraeva l’artista sul lungomare di San Menaio, frazione di
Vico del Gargano. Ebbene, immergendomi nella lettura di Perse tra le carte,
in maniera del tutto istintiva e involontaria, mi è apparsa davanti quella
diapositiva, e allora ho pensato al grande, immenso potere evocativo della
parola. In un attimo, miriadi di immagini e rimandi hanno popolato il mio
immaginario poetico: così, il logos-verbum – la parola, il discorso –
l’elemento che ha la capacità di creare dal nulla, ha fatto capolino dai versi
di Vito Antonio Conte, costruendo non solo arabeschi poetici, ma veri e propri
mondi: «Immagino un paese / Dove la via principale / Si chiama: / Lastoriasiamonoi
/ Poi… / È impossibile! (mi dici) / Perché non l’hai ancora vista! / E dov’è?
(insisti scettica) / (…) / Dove non c’è niente da scrivere / E tutto da vivere»
(XVI, p. 33). Non possiedo nessuna verità – è un mantra che mi ripeto
spesso – ma concordo con il grande Franz Kafka quando affermava che: «Un
libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi».
Ebbene, questa silloge rompe il ghiaccio e scardina porte, donando frammenti di
esistenza vera, quella che fa sentire vivi, che è fatta di gioie e di dolori e,
proprio in quanto autentica, rappresenta la vera cifra del reale: «Ecco /
Adesso c’è / Una grande casa di pietra / Completamente vuota / E io che girando
/ Per le ampie stanze / Bevo / Una birra ghiacciata / Ecco / Adesso c’è / Le
budella mi si torcono sempre / Ecco / Adesso c’è». (XLV, p. 70).