NON DARE LA CORDA AI GIOCATTOLI di Nicola Vacca (Marco Saya Edizioni)


Non dare la corda ai giocattoli di Nicola Vacca (Marco Saya Edizioni)



«Non abbiate paura dei poeti
sono i primi a scomparire
quando spergiurano le parole.

Amate, invece, la poesia
che sopravvive sempre al poeta
e che non si eclissa mai
davanti al bisogno di lottare.

Non abbiate paura nemmeno dei poeti
che dicono sempre di essere felici.

Prima o poi finiranno gli abbagli
che si contrabbandano per verità».

(Non abbiate paura dei poeti, p. 87)


A distanza di qualche tempo dalla sua precedente raccolta, Tutti i nomi di un padre (L’ArgoLibro Edizioni), con la quale aveva inciso delle pagine indelebili nella mente e nel cuore di chi la poesia la vive sulla propria pelle e non nei salottini della pseudocultura, torno a parlare, con molto piacere, di Nicola Vacca, autore e critico di spessore, che recentemente ha dato alle stampe la sua ultima – in tutti i sensi, stando alle sue dichiarazioni – opera poetica, Non dare la corda ai giocattoli, Marco Saya Edizioni, 2019. Si tratta di un lavoro crudo, radicale, che fa male (soprattutto agli ipocriti e ai venditori di fumo) e sa incidere, facendo sanguinare, tutte le mancanze di noi, esseri umani (post-umani? inumani?) del terzo millennio. Vacca ci dice fin da subito, senza giri di parole, che, come umanità, siamo in una situazione davvero al limite dell’accettabile o, forse, con molta più veridicità, quel limite l’abbiamo già oltrepassato: «[...] È morto per sempre il tempo del contatto / su e giù per ascensori ci si uccide consumando / l’utopia del dio denaro [...]». (Il grado zero della solitudine nei centri commerciali, p. 14). La privazione del contatto, dunque, di quella prossimità da sempre segno di legame tra persone, fondamento di comunità e di collante interumano, che tocca il culmine dell’assenza nei non-luoghi – la lezione di Augé è qui ben viva – rappresenta l’abominio dell’oggi e Vacca, da attento indagatore della realtà, ce la restituisce in tutta la sua abissale negatività.  Così, la notte, l’oscurità, le finestre – ora arcignamente chiuse ora arrendevolmente spalancate – le metropoli disumane, la solitudine – egregiamente presente, insieme alla numinosità tutelare di Hopper – la mancanza di solidarietà e, purtroppo, d’amore, divengono non solo un atto d’accusa verso l’inaridimento dell’umano ma rappresentano un forte invito a prendersi le proprie responsabilità e, in ultimo, ad agire per cercare di ritrovare una qualche autenticità, pur in mezzo alle molteplici difficoltà: «[...] C’è bisogno di un cambio di passo / ma la pioggia di questi giorni / ha inzuppato le scarpe / e il cammino si è fatto pesante». (La realtà sulla panchina, p. 16). Nei versi di Vacca vi è poi una sorta di ribaltamento della concezione comune che si ha dei sogni; difatti, correntemente considerati come dimensioni auspicabili e alte, l’autore ci dice, invece, proprio nella lirica che dà il titolo alla raccolta, che le illusioni e le chimere non portano da nessuna parte, se non verso una forma mistificata e alterata d’esistenza: «Per rifare il mondo / serve una dose massiccia di realtà. / Oltre tutte le porte che attraversiamo / si finisce sempre nell’inganno del sogno [...]». (Non dare la corda ai giocattoli, p. 33). Attenzione però, il poeta non ci sta invitando a rinunciare alle nostre aspirazioni (mi si consenta questo termine così secco e didascalico) o a non compiere dei percorsi che ci migliorino, tutt’altro, nelle sue parole è ben espressa l’intenzione di affrontare i nostri abissi, di guardarli in faccia senza esitazioni, solo in questo modo, prendendo le cose di petto, ci viene data un’ultima, apocalittica possibilità di mantenerci umani: «[...] Aprire un varco con le parole / è l’ultima possibilità prima dello schianto. / Anche se non c’è nulla di preciso / tentiamo una cura del mondo offeso. // In questi giorni di niente / la poesia è acqua che disseta». (La poesia, p. 45). La poesia vacchiana è, dunque, figlia del pòlemos che, nella sua accezione originaria, era ben lontano dallo sterile e autoreferenziale sbandieramento del bellum omnium contra omnes. Queste liriche, infatti, sembrano dichiarare un altro tipo di battaglia, quella contro la grande desolazione della contemporaneità, che ci vuole sempre più automi e sempre meno umani. Così, ammonisce Vacca, finché continueremo a «dare la corda ai giocattoli», non saremo in grado di uscire da quella dimensione di falsità con la quale siamo tanto accondiscendenti. 

Lettura altamente consigliata.  


Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. È redattore della rivista «Satisfiction». Ha pubblicato: Nel bene e nel male (1994), Frutto della passione (2000), La grazia di un pensiero (2002), Serena musica segreta (2003), Civiltà delle anime (2004), Incursioni nell’apparenza (2006), Ti ho dato tutte le stagioni (2007), Frecce e pugnali (2008), Esperienza degli affanni (2009), con Carlo Gambescia il pamphlet A destra per caso (2010), Serena felicità nell’istante (2010), Almeno un grammo di salvezza (2011), Mattanza dell’incanto (2013), Sguardi dal Novecento (2014), Luce nera (2015) - Premio Camaiore 2016, Vite colme di versi. Ventidue poeti dal Novecento (2016), Commedia ubriaca (2017), Lettere a Cioran (2017), Almeno un grammo di salvezza, riedizione (2018), Tutti i nomi di un padre (2019).




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