VENUTA SEI di Nicolò A. Fagnani (Rebellato Editore)


Venuta sei di Nicolò A. Fagnani (Rebellato Editore)





«Non aspettano amici

i pastori della mia terra.

Fiutano i cani

assetati di sangue [...]».

(Le mie mani, p. 7)





Per uno come me, che crede ancora nell’importanza irrinunciabile del gesto gratuito, il dono di questa notevolissima – e rara – silloge di Nicolò A. Fagnani (autore scomparso nel 1993), da parte della figlia Smeralda, ha il sapore di un continuum umanistico, che salda certi profondi legami tra la poesia e le persone. Venuta sei, raccolta pubblicata nel 1975 da Rebellato, è un lavoro importante, straordinariamente maturo, ricco di immagini potenti e scritto con sobria ricercatezza. In queste pagine si respira un Sud a tratti mitico, selvaggio, pregno di suggestioni antiche e di immagini senza tempo: «Abele fu ucciso ed era pastore. / Le mie mani non sono cresciute, / sanno solo accarezzare un sogno». (Le mie mani, p. 7). Figure archetipiche sembrano muoversi verso mete immemoriali, dove la duplice dimensione dello spazio/tempo naufraga in acque profonde, poiché abissale è la poesia autentica dell’autore. Fagnani usa sintagmi fendenti, suoni acri uniti a delicata ostensione («Legato dietro il cane muto / guarda lune di grano duro»., Ulive salate, p. 8); a volte parole inconsuete, che fanno la loro apparizione in luoghi conosciuti, creano un effetto inquietante, straniante, come se si assistesse – ed è qui una delle qualità eccezionali della poesia di Fagnani – a un eventum metafisico e, simultaneamente, ben radicato nella brulla e accidentata realtà del meridione: «Parlatemi di quel mare, / della nepeta, / di cupole ombrate d’arabo rimpianto; / parlatemi della nanfa / che sul vespro assopisce». (Zahara, p. 9). I versi dell’autore sono netti, colmi di “presenza del passato”, dove i rimandi e i richiami all’ars poetica dei grandi classici e alla storia dei popoli rappresentano un incontro con ciò che permane nell’impermanenza del nostro essere transeunti: «[...] nell’arida terra / arabi e normanni / guardano il sole». (Dorme una pietra, p. 10). Le parole di Fagnani incidono la tabula rasa della dimenticanza, “provocando” una memoria, come solo i veri poeti sanno fare, soprattutto quelli che hanno vissuto, parafrasando Carmelo Bene, nel “Sud del Sud dei Santi”. Ne sapeva qualcosa Vittorio Bodini, cantore del sangue, della luce che abbacina, della luna che si riflette sulle ex terre dei Borboni e traduttore di tanta poesia spagnola. E lo sa bene anche Fagnani, poiché ha casa dove può averla solo chi è dotato di una certa tempra: «La mia casa è qui / ove la lava / è grido e terrore». (Lava, p. 14). Il poeta di Venuta sei padroneggia le liriche, tutte, anche quelle più estese. E qui, mi trovo in disaccordo con Bárberi Squarotti, autore della pur pregevolissima prefazione all’opera, che riconosceva un valore maggiore ai lampi, ai baleni delle liriche brevi a discapito del pathos di quelle prolisse. A una lettura attenta, profonda, slegata da correntismi, direttive generazionali e pregiudizi peculiarmente novecenteschi, le liriche più consistenti del Fagnani rivelano un andamento esponenziale, un crescendo di sapienza ed emozione, come se ci trovassimo di fronte a un’orchestra, la cui sinfonia inizia in filigrana per poi esplodere in tutta la sua forza, poiché, alcuni passaggi, in modo particolare quelli in cui vi è una componente sociale e civile, necessitano del giusto mezzo. Voglio lasciare i miei lettori con una di queste meravigliose liriche che, a mio avviso, lasciano trasparire l’alto spirito umano e lirico dell’autore:

«Tu giri

in circolo senza fine,

con gli occhi chiusi,

per altrui profitto.

Su ombre, macchie

di lumera, giri.

Giri e non sai

che macina su macina

gira

al tuo girare.

Macina e vite,

vite in madre-vite

gira, gira ... gira.

Tue pene l’uliva soffre,

piange, rivoli di sansa

e giri, giri

fin quando nella notte

ululato di brogna

altri non svegli

da lenti torpori.

Ora non giri.

La sporta è pronta

di biada è colma,

circulo di luce

t’abbaglia, ti circonda.

Non hai più fame,

la testa chini

in malinconico abbandono».



(Ad un asino da macina, p. 57)



Lettura altamente consigliata.



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