LA POESIA DI ADRIANA GLORIA MARIGO: UN'INTERVISTA

 Care amiche e cari amici di Linea Carsica, in occasione dell’uscita, per i tipi di Prometheus, di Astro immemore, ultima silloge poetica di Adriana Gloria Marigo, vi proponiamo un’intervista all’autrice. Buona lettura. 

 


Intervista Adriana Gloria Marigo

 

  1. La sua ricerca, partendo dalla prima opera Un biancore lontano, attraversando le successive sillogi L’essenziale curvatura del cielo, Senza il mio nome e finanche la raccolta di pensieri Minimalia, entra nel profondo dell’Humanitas e del Logos, in un incontro con l’eterno, con la perennità dell’Essere-Essenza e con la caducità dell’Esistenza. Anche in questa sua ultima raccolta, Astro immemore, si può scorgere la metafora del reale attraverso la figurazione immaginifica del Lago. Cosa rappresenta per lei questo «luogo d’acqua» in cui le Nàiadi appaiono ancora celarsi?

Il «luogo d’acqua» che ha ispirato Astro immemore – la parte settentrionale della sponda lombarda del Lago Maggiore, molto prossima al Canton Ticino, dunque, territorio di frontiera – è il paesaggio in cui ho vissuto dai cinque ai ventisette anni. Molto tempo, tuttavia discontinuo: nata in Veneto, i miei genitori per ragioni di lavoro si trasferirono in questa terra riservata, riparata e al tempo stesso visiva, suggestiva. Qui ho compiuto i miei studi primari e secondari, attendendo l’arrivo delle vacanze estive come una grazia, poiché le avrei trascorse nella casa dei miei nonni veneti nella campagna polesana dove lo spazio, panicamente vasto, libero dalle scenografie petrose delle montagne e da quelle vietate delle acque del lago, mi accompagnava nel trascorrere giornate immerse nella natura dei vigneti e degli orti di famiglia, alla fantasticheria, a crearmi un mondo molto vivo, personale, radicato in quello quotidiano che vedevo, espressione del lavoro nei campi. Poi, alla fine di settembre, tornavo a casa, sul lago: portavo con me il mondo agreste, molto ludico, gratificante e qui, nella scontrosa terra prealpina conservavo lo scrigno della nostalgia panica, un vocativo, e crescevo una sorta di amore intellettuale per i luoghi: non fu mai attaccamento, appartenenza, radicamento empatico, ma una relazione di affezione ammirata, una ispirazione a cogliere ciò che non si vede e percepisce come presenza sottesa alle forme molto visibili delle montagne, dei boschi, della superficie equorea che però sono sempre sipari, schermi, diaframmi oltre i quali si può intuire vivere il sorprendente, l’inatteso.

  1. La sua Poesia, raffinata, colma di delicata grazia e, al contempo, di forza evocativa, sembra essere sospesa in una dimensione classica, dove solo eccellenze poetiche come quelle di Dante, Petrarca, Leopardi o Campana hanno dimora e dove il sublime della natura, il gesto sanguigno di Omero e il turbamento di Eschilo, si riversano incessantemente. A tal proposito: qual è il suo rapporto con la classicità?

Ho sempre molto amato leggere; è stata per molto tempo una insopprimibile curiosità e una fame onnivora: avevo la sensazione che accanto al mondo quotidiano e visibile esistesse un mondo parallelo e invisibile e questo fosse abitato da storie misteriose, esemplari, grandiose. A casa c’erano antologie di letteratura italiana, la Divina Commedia, I promessi sposi, Orlando Furioso, La Gerusalemme Liberata, Paradiso Perduto e una serie di romanzi storici tra cui La disfida di Barletta che lessi un’estate, intorno ai nove anni. È stato in prima media, imparando a memoria il proemio dell’Iliade di Vincenzo Monti che ebbi la percezione fortissima della musica nel verso e, come spinta da una forza inevitabile, cominciai ad appassionarmi ai libri classici della letteratura italiana e più avanti di quella europea. Intorno ai diciotto anni avvicinai, nella versione in italiano, i grandi autori della Grecia antica e, in questo itinerario molto fitto di presenze, compresi che stavo attraversando un territorio che vibrava di sentimenti paradigmatici, virtuosi e di pensiero esemplare. Sentivo che i classici possedevano un segreto, erano depositari di una sapienza come un codice, una matrice inesauribile, valida per ogni tempo, fossero il luogo di tutti gli archetipi cui affidarsi quando l’esistenza si fa difficile, oscura.  

  1. Lei pone grande attenzione alla lingua, segno che per il suo Io poetante la parola è un elemento che va ben oltre l’ambito comunicativo e la ricercatezza dei lemmi. Possiamo dire che nel verbum lei individua l’arcana forza creatrice che, insieme alle fonti di ispirazione, pone in essere il suo universo poetico?

La parola va sempre oltre l’ambito comunicativo: dice un “oltre” rispetto a quanto sta dicendo, dice il non detto, il sottaciuto, il rimosso. È la natura psichica, complessa, polisemica della parola, la sua costituzione olistica che media sia il significato originario del linguaggio, sia lo spirito, il significato profondo, la matrice che accorda l’identità alla parola mentre la dona all’uomo. In questo senso la parola, pervasa di logos, è verbum. Ebbene, rispondo che sì, è questo riconoscimento – rispetto che perseguo ogni volta che mi raggiunge l’ispirazione. E, in tal senso, scrivo poco, poiché “riconoscimento” e “rispetto” dell’intima natura della parola è ammettere, affermarne il valore di verbum.

  1. Il suo percorso lirico sembra indagare, tra l’altro, tòpoi misterici, dove il verso diviene quasi sibillino, aprendo le porte a quello che Luce Irigaray chiamava l’«inespresso». Il poeta ha davvero il dono di dire l’indicibile?

Esprimersi in Poesia è arduo, mai definitivo, ed è un percorso di improvviso bagliore e di progressione per frammenti verso ciò che ha acceso l’intuizione della parola, l’ha inverata, resa corpo. L’elemento che la rende possibile è l’indicibile, l’ineffabile, l’inafferrabile, l’inespresso: esso resta enigma, anelito per il quale il poeta diventa tale e cerca di raggiungerlo, disvelarlo attraverso le immagini delle parole, la musica del verso, gli aspetti formali del componimento. L’avvicinamento all’«inespresso» è come la proprietà di un fotogramma che mostra la bellezza di un paesaggio, di un volto, senza mai diventare il paesaggio, il volto. Vittorio Sermonti, introducendo il Canto XXIII del Paradiso in una sera di letture al Cenacolo di S. Croce in Firenze nel lontano 2005, ebbe a dire «…il poeta, oltre tutto, non fa che dire che non sta dicendo», in quanto «… Dante vede l’inimmaginabile e dice l’indicibile, continuamente ribadendo di non saperlo dire.», poiché ha la sapienza di ammettere che il linguaggio ha limiti che ostano con lo slancio immaginale, la tensione a trasferire nella parola l’inespresso, piegarne il mistero.

  1. Paul Celan affermava che «La poesia è un dono fatto agli attenti. Un dono che implica destino». Da quanto spesso scaturito nel corso delle nostre conversazioni, lei sembra essere in sintonia con il pensiero del grande poeta...

L’affermazione contiene tutta la visione lucidamente disperata e al tempo stesso altissima di palpito esistenziale che Paul Celan ha della condizione umana: egli colloca la parola in una soglia molto alta, persino dolorosa, poiché in essa ravvede il sacro del verbum, la presenza di quegli elementi che Rudolf Otto aveva individuato per il sacro, ovvero Tremendum, Mysteriosum, Fascinans; vi trova la vertigine che la grande poesia fa percepire all’uomo mostrandogli la sua altezza e la sua miseria, il suo bisogno di compassione e redenzione. In questo spazio elevato la poesia può darsi solo a coloro che la onorano, che nel tremore della relazione con la parola di poesia accolgono il suo mistero, lo trasferiscono senza appello nelle vene dell’esistenza profonda, nella vita.

  1. Lei è poetessa ma anche direttrice di collana e attenta intellettuale. In un’epoca come la nostra, in cui tutto sembra essere omologato al mainstream e all’apparenza, il dominio della tecnica appare inesorabile e una sfacciata ignoranza ha preso il posto del senso critico, il poeta può ancora, parafrasando Baudelaire, andare oltre i miasmi ammorbanti e purificarsi nell’aria superiore?

L’età storica che viviamo sembra congiurare per il dissesto delle coscienze e l’impossibilità di nominare, ossia di pronunciare la parola che si stagli in sapienza etica, esaustiva. Montale scrive «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato.», poiché avverte nel tetro darsi dell’esistenza il disfacimento del logos, l’impossibilità ad asserire se non in negativo, se non nella prospettiva del no, se non nello sperdimento dello spirito. La visione del poeta genovese è attuale – il tempo consente con grande facilità il ripiegarsi di intelletto e coscienza come se attuassero l’unica difesa possibile –, ma ritengo non sia da perseguire: il poeta, in quanto “cercatore” della parola che nomina, costruisce senso,  non solo “può”, ma “deve” andare oltre i «miasmi ammorbanti» o il «polveroso prato». Guai a coloro che per cinico pensamento rinunciano a elevarsi dalla bassura del tempo, non osano accogliere lo spirito che chiama a immaginare, riconoscere «…la segreta/ lingua dei fiori e delle cose mute.»


Adriana Gloria Marigo è nata a Padova, vive a Luino. Dopo gli studi universitari in pedagogia a indirizzo filosofico, ha insegnato nella scuola primaria. Attualmente cura la presentazione di libri, collabora con associazioni e riviste culturali, dirige la collana di poesia Alabaster per Caosfera Edizioni di Vicenza.

Ha pubblicato le sillogi Un biancore lontano, LietoColle, 2009; L’essenziale curvatura del cielo, La Vita Felice, 2012; Impermanenza, plaquette edizioni Pulcinoelefante, 2015; Senza il mio nome, Campanotto Editore, 2015; Astro immemore, Prometheus, 2020. Santa Caterina d’Arazzo, plaquette GaEle Edizioni, 2017; 15 Poesie da “Senza il mio nome” e una poesia inedita, plaquette Caosfera Edizioni, 2017; Minimalia, Campanotto Editore, 2017 (aforismi); Neoterica, plaquette FUOCOfuochino, 2019; Tarsie, FUOCOfuochino, 2020 (aforismi, in preparazione).

È stata finalista al Premio Camaiore 2016 e al Premio Montano 2016 con la Menzione; numerose sono le prefazioni e le note critiche per poeti italiani e romeni: la prefazione più recente è alla silloge poetica Inna. Vita & Opera, Aracne Editrice, 2018 del filologo italianista George Vasile, Bucarest. Ha curato la brochure La tensione del filo  per la mostra (aprile 2019) della pittrice padovana Patrizia Da Re.

 


 

 

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