ASPETTANDO L'AURORA di Marcello Buttazzo (I Quaderni del Bardo)
Aspettando l’aurora di Marcello Buttazzo (I Quaderni del Bardo)
Oh notte,
non mi portare
lacrime sciolte,
ma solo il volto di lei.
M. Buttazzo, XII, A Paola, Aspettando
l’aurora
Care
amiche e cari amici di Linea Carsica, mi ritrovo qui, a distanza di qualche
tempo, per ragionar ancora della Poesia di Marcello Buttazzo, un poeta che
abbiamo ospitato spesso in questo spazio, poiché la sua parola in versi è arte
che disseta la nostra sete di intima condivisione e di elevazione culturale.
Questa sua ultima opera, Aspettando l’aurora, I Quaderni del Bardo,
2025, è un passo ulteriore nel cammino lirico dell’autore, un viaggio composito
attraverso l’essenza dell’esistere, dello stare al mondo. Un tirarsi fuori dal
nulla, e dalla sua azione annichilente, per determinare lo Spirito incarnato
nella realtà transeunte, eppure straordinariamente stante, dell’umanità. Ogni volta che leggo Buttazzo, mi sorprende
l’altissima qualità di ciò che da lui promana, il suo è un cammino liricamente
estatico, una fuoriuscita d’un magma potente e di eccelsa premura al tutto, come
una luce di plotiniana memoria, che accompagna il pellegrino dall’anima turbata
in questa Terra odierna, sovente bistrattata da mali furiosi e irrazionali. M’incanta
l’uso sapiente della lingua, m’inebriano le parole che gli appartengono come se
gli fossero cucite addosso, mi trascinano i verbi che aprono mondi, che fendono
il tempo schiettamente, ma che poi lo curano con dolcezza, come balsamo che dà
sollievo, oppure come un phármakon per l’anima, che cela la sua azione
terapeutica nell’ambivalenza della gioia e del dolore, della panacea e del venenum.
Il lirismo di Buttazzo inebria fin dalla prima lirica: «L’eterno fragore / mi
porta solo il silenzio, / ciò che più bramo / in un cantuccio riposto.» (I,
p. 21). Ecco, l’universo poetico dell’autore sembra concentrarsi in questa
lirica d’apertura, come un manifesto, un proemio scalpitante, simile a una
magica ouverture che appare una dichiarazione di propositi: la brama del
«silenzio», del «cantuccio», del riparo dal negativo, da ciò che sedimenta tra l’incertezza
e il caos. Il poeta, solo in mezzo al clamore, è alla ricerca di uno «spazio
dimesso», della sua Itaca appartata. Un luogo immemoriale, atavico, dove
ritornare, come fanno i suoi adorati gatti, detentori d’una felina sapienza,
che si trastullano, si beccano per gioco, si stuzzicano, infondono nel Poeta,
dal cuore sensibile al pur minimo misfatto della Terra, un phántasma belli,
un simulacro di Polemos, che gli suscita un intimo desiderio di conciliazione: «Stamattina
/ ho visto nel giardino / i miei due gatti / che bisticciavano. / Alfonso, il
nero, / ha assalito e morsicato / Johnny, l’albino. / Non voglio la guerra, /
inseguo la pacificazione, / fosse pure quella felina». (XXIII, p. 44).
Buttazzo
canta la vita, l’amore, l’amicizia, il trasporto. Sentimenti ed emozioni che
vivono ovunque, nelle persone in carne ed ossa – la donna desiderata, la madre,
il padre, il fratello, l’amico, i migranti, gli ultimi della terra – nella
natura, in tutte le creature viventi e poi, ancora, in tutte le figure del
cielo, il sole, la luna, le stelle. Il mondo di Buttazzo è un mondo di tinte e
di colori, di gialli, rossi, arancioni, azzurri. È iride, arcobaleno, orizzonti
sconfinati e intime dimore. È terra, pietra, cielo, spazio-tempo. La poiesis
di Buttazzo è la prossimità agli ultimi, senza retorica, fingimenti, buonismi. L’umiltà
francescana, tanto invocata dal Poeta, così profondamente sentita fin dagli
anni lontani, eppure vicini, dell’infanzia, quando fanciullo si dilettava con
gli amici negli spazi del Convento di Lequile, è la cifra di un’esistenza
votata al Sublime, al sogno, alla rarefazione dei momenti eterni del desiderio
e della devozione al Sommo Bene, senza scordarsi delle radici, dell’infinitamente
piccolo, poiché era proprio ciò che, insieme al divino, era caro al poverello d’Assisi
ed è caro a chi, come Buttazzo, fa del verso lirico un salmo della vita e della
condivisione: «Lasciami stazionare / perennemente / nella dimensione del sogno
/ fammi coltivare chimere e utopie. / E poi dammi / terra d’arare. / Il tuo
cuore / sangue / da immaginare». (VII, p. 27).
Cicerone,
nel trattato Laelius seu De amicitia, scriveva: «Omnia praeclara rara»: «Tutte
le cose eccellenti sono rare». Una Poesia che accarezza l’amore fraterno e lo
vede farsi attenzione e premura, «Ricordi / quando mi dicesti: / “Non avere paura”.
E poi: “Abbi cura / di ogni persona / prossima agli altri e a te”». (XXX,
A mio fratello Emidio, p. 52); una Poesia che culla l’amicizia: «E se ti
penso / mi sovviene / tutto il bene. / Quello che ti voglio, / quello che mi
doni». (XLII, All’amico Vito Antonio Conte, p. 64) e che fonda il
suo lirismo sulla vicinanza all’altro, facendosi prossima al dolore degli
ultimi: «Vorrei tanto / che il suo Dio / salvasse tutti i naufraghi / delle acque
e delle terre». (LVIII, p. 83) non può che essere un raro dono da
condividere e assaporare al desco dell’humanitas. Il tempo, allora, si
dilata, fino a toccare ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà: «Questo presente
/ s’infutura / nel giorno che verrà». (XLI, p. 63).