Il Salento e lo sbando civico
Più
volte, nel corso di questi ultimi anni, mi sono chiesto cos’è che tiene in vita
quel senso d’impossibilità a crescere, a migliorarsi, a guardare oltre –
plasmato con l’immobilismo più profondo – che attanaglia il popolo salentino,
stringendolo nella morsa del “non fare” o meglio, dell’“inutilità del fare”.
Non parlo di quei pochi irriducibili (sì, sono maledettamente pochi!) che
giorno dopo giorno si danno da fare, nei modi più disparati, per cercare di
mantenere a galla una realtà culturale e sociale che altrimenti andrebbe alla
deriva definitivamente, ma dei tanti – troppi! – che rimangono del tutto
insensibili di fronte all’attualità delle cose. Uno sbando civico, prima che
culturale, di cui, come si diceva poc’anzi, in pochi s’accorgono e, soprattutto,
a pochi sembra interessare davvero. Il pensiero di non farcela, della
difficoltà insormontabile, del perenne ostacolo alla riuscita dei più piccoli
gesti, atti, azioni, penetra la società salentina fin nel profondo, rendendola
in tutto e per tutto schiava del principio d’inerzia. Così, anche alzarsi la
mattina diventa un atto inutile, sterile, stupido. Chi non vede tutto ciò o è
cieco o incosciente. Oppure fa finta di non vedere. Perché, in ultima analisi,
non vedere è più comodo, lo sanno tutti. Certo, non è tutto nero, per carità.
Ma non è neppure tutto colorato con le tinte del sole, del mare e del vento.
Questo lo si era capito già da tempo. Purtroppo, capire qualcosa non significa
introiettarla fino in fondo. E soprattutto non significa agire per
cambiare. Troppo comodo dare sempre la colpa ad altro e altri. Troppo comodo
tirarsi sempre fuori dall’agone delle responsabilità. Recentemente ho fatto una
sorta di sondaggio, uno di quelli senza metodo scientifico-statistico. Sapete,
di quelli tipo chiacchiere da bar. Ho chiesto ad un numero consistente di
persone cosa pensasse dei tanti problemi – culturali e non – che assillano la
nostra terra. E sapete la novità? Tutti, o quasi, erano ben coscienti di come
stanno le cose. Sapevano perfettamente di economia, cultura, politica, aspetti
sociali. Alla domanda di chi fosse la colpa, hanno risposto nei modi più
disparati, additando politici, membri delle istituzioni, uomini d’affari. Non
uno che abbia detto “È anche colpa mia”. La frase che in assoluto è stata più
pronunciata (con poche insignificanti varianti) è: “Non ci possiamo fare
nulla”. Alla domanda “Chi dovrebbe risolvere questi problemi?”, non uno che
abbia detto “Io”, non uno che abbia detto “Noi”, non uno che abbia detto “la
società civile, i cittadini”. Insomma, a risolvere tutti i problemi, anche i
più minuti, ci devono pensare i politici e gli uomini in vista. Una presa di
coscienza e di posizione dal basso, non solo non appare possibile ma per molti
risulterebbe addirittura sconveniente. Perché perdere del tempo con queste
cose? Ognuno ha la propria vita, i propri problemi, il proprio quotidiano. Già,
“quotidiano” è diventato sinonimo di grigiore, di resa, di fatalità, tanto per
tornare all’inizio di questo nostro discorso. Pensare costa. Agire ancor di
più.
Mi
sono chiesto anche il perché del disfacimento della solidarietà sociale che,
salvo pochi e non certo rappresentativi esempi, porta all’individualismo più
sfrenato, alla difesa del niente coperto di denaro. Chi ha molto vorrebbe di
più, questa è cosa vecchia. Chi ha poco (a volte pochissimo) lo difende a spada
tratta, in una guerra tra poveri dove non ci sono né vinti né vincitori. Il
berlusconismo non può, da solo, rappresentare la quintessenza di tutto ciò, di
tutti i mali nazionali che poi si ripercuotono sul locale: sarebbe dargli
troppa importanza. Il berlusconismo, pur con tutta la sua potente e perversa
attrazione (rivelatasi poi fatale), ha trovato terreno fertile su cui
attecchire. Un terreno impinguato da humus servile (un gran numero di studiosi
ha speso fiumi d’inchiostro per trattare l’annosa questione di secoli di
dominio straniero sulla penisola italiana che avrebbero poi plasmato una
mentalità asservita) misto alla percezione dell’esistenza come legata
indissolubilmente ad un fato capriccioso in grado di vanificare qualsiasi
sforzo di cambiamento. A tutto questo non ci sono soluzioni immediate, lo
capirebbe anche un bambino. Ma la difficoltà della situazione non può essere un
alibi all’immobilismo e al menefreghismo. Forse dovremmo scomodare Martin
Luther King, dovremmo dire insieme a lui “Può darsi non siate responsabili per la situazione in
cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla”.
Articolo pubblicato sul numero di domenica 10 febbraio del quotidiano "Il Paese Nuovo".