E SIA di Grazia Procino (Giuliano Ladolfi Editore)
E sia di Grazia
Procino (Giuliano Ladolfi Editore)
«Mi chiedete, quello che resta.
Davvero, non lo so.
Forse la tana dei vermi
nel terreno grasso e umido.
Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.
I giorni mai uguali l’uno all’altro
i minuti di sofferenza sempre uguali [...]».
Davvero, non lo so.
Forse la tana dei vermi
nel terreno grasso e umido.
Le vite dei santi e le stanze dei detenuti.
I giorni mai uguali l’uno all’altro
i minuti di sofferenza sempre uguali [...]».
(Quello che
resta, p. 47)
Se il panorama della poesia italiana
contemporanea sembra languire, da un lato per l’annosa questione
dell’elitarismo dei poeti, dall’altro, di contro, per un effimero successo di
poetanti da ipermercato, la cui qualità di scrittura è di una mellifluità
assiomatica ma che ha incontrato il favore dell’attuale mediocritas, vi sono (esistono, credetemi!) delle perle preziose,
neanche tanto celate, che immettono linfa vitale nelle vene liriche dell’oggi.
Questo, è bene sottolinearlo, soprattutto a opera di piccole e medie case
editrici, dove la poesia ha trovato dimora ormai da tempo.
È il caso di E sia, opera di Grazia Procino, Giuliano Ladolfi Editore, 2019, una
notevole raccolta che corrobora, attraverso il suo elegante classicismo, la
nostra tesi, secondo la quale la buona poesia è tutt’altro che spirata ma, a
chi sa dove cercare, dona ancora momenti di eccelsa beatitudine letteraria. La
presente raccolta, divisa in sezioni che rimandano all’antica tragedia greca –
prologo, stasimi, monodia, epilogo – del dramma conserva anche l’altezza e la
profondità sine die del sentire
classico: «Incede stravolta / il sangue è solo tormento / per la figlia di
Ecuba, / punita dal dio amante dei poeti. / Tutti la guardano / ora che sanno
di avere sbagliato / a deriderla quando tracciava / ampie e furiose / le strade
della sciagura [...]». (Cassandra minore,
p. 51). Grazia Procino tesse una trama pregna di pathos, dove al centro di tutto è l’umano, con tutta la sua bellezza
e tutto il suo abisso. Leggendo questi versi, si ha l’impressione di essere
sempre in viaggio, attraverso infiniti peripli, e di non approdare mai
definitivamente a Itaca. Eppure, nel travaglio di un percorso frastagliato e
inquieto, vi sono sprazzi di luce che illuminano i cuori e le menti: «Tu sei la
mia scialuppa, io la tua». (Pretesto di
Narciso, p. 43). È una gioia aver incontrato questa piccola gemma di poesia
contemporanea, poiché è dagli incontri inattesi – e fortunati – che spesso
originano le più belle esperienze di lettura e di condivisione culturale.
Importante, a nostro avviso, è anche portare l’attenzione sulla lingua e sulla
sintassi poetica dell’autrice, in quanto la cura della forma non è slegata
dalla profondità dei contenuti ma, se possibile, accentua alcuni passaggi: «In
questo cupo silenzio cullo / le mie ossa stanche somigliano solo / a se stesse
e non sono capaci, ahi, non ancora, / a scrollarsi di dosso l’argento delle
ragnatele [...]» (Il canto interrotto
delle cicale, p. 60) e ancora: «Io non so dell’amore che le onde alte / e
Odisseo che ritorna / a un’Itaca piena di sassi / sterposa e brulla / il
profumo del mare lieve che / intona nostalgie e robusti desideri». (Orizzonti, p. 66).
La poesia, dunque, non può prescindere
dall’amore per la parola e dal transito dal particolare all’universale – pena
lo sconfinare nel diario personale o in un format asfittico, simile a un asettico
reportage giornalistico – e Grazia Procino sembra amare proprio la parola alta,
il logos poetante che appare come
l’unico strumento capace di mettere in contatto due mondi apparentemente
inconciliabili: quello dell’umano e quello del divino, dell’oltreumano. Così, negli
elevati versi di E sia, l’autrice ci
restituisce un po’ del maltolto, di ciò che è andato perduto nei meandri della
poesiola compiacente e fintamente ingenua del mainstream odierno, o si è
inaridita e impoverita – nel lessico, nelle figurazioni, nella profondità di
scandaglio – in certi scimmiottamenti pseudo-impegnati nel civile. Nondimeno,
l’autrice ci porta il conto dell’odierno stato della società, poiché, se la
lettura del mondo che danno i poeti è cartina al tornasole dei tempi, il senso
civico si muove anche tra le forme alte del poetare della Procino e diventa un
grido di dolore: «[...] Impazzire di fatica è umano? // Chiedo a chi guarda
dall’altra parte / E non vuole vedere. / Se Dio sopravvive / non è certamente
qui». (Raccoglitrice di pomodori in una
campagna pugliese, p. 23).
Desidero, infine, salutare i lettori di Linea Carsica con questa breve e
intensissima lirica, che percorre ancora il cammino dell’inquietudine entro cui
l’umano è gettato:
«Davanti al dolore di chi vi affoga
la carne sente brividi di
freddo
incupisce il cerchio
si chiude sterile.
I fiori rossi cadono anche
d’estate così le scottature
al dolore. Io crebbi.
Al giardino d’acacie racchiusi sono i
segreti».
(Davanti
al dolore, p. 53)