L'ARTE CONTEMPORANEA E IL MITO DEL «POTEVO FARLO ANCH'IO»
L’arte contemporanea e il mito del «potevo farlo anch’io»
Davanti a un’opera di
Marcel Duchamp o di Piero Manzoni ci si pone in due modi, distinti e opposti: o
si entra in sintonia con essa, godendone appieno, oppure la si rigetta con
estrema ripugnanza. Se è vero che generalizzare può essere sbagliato, non si può
negare che la maggior parte degli individui appartiene al secondo gruppo.
Osservare un multiplo di Joseph Beuys fa venire l’orticaria al fruitore medio
dell’arte, fermo al Rinascimento o, al massimo, all’Ottocento – in casi
eccezionali si arriva perfino alla pittura metafisica del Novecento. Ecco
allora la fatidica frase: «Lo potevo fare anch’io», con la quale si suggella la
coincidenza tra arte e tecnica. Se lo posso fare pure io non è arte! Alla
questione Francesco Bonomi dedicò un divertente saggio, il cui scopo era
proprio quello di chiarire il perché «non è vero che potevi farlo anche tu». I
motivi sono tanti, forse troppi per chi si ferma all’apparenza e non ha voglia
di approfondire, e certamente sarebbe velleitario, da parte nostra, tentare di
affrontare un tema così complesso nello spazio di un post su un blog. In
occasione di una trasmissione televisiva, Carlo Vanoni, esperto d’arte,
saggista e ottimo divulgatore, lanciò una provocazione al pubblico: «Quanto
tempo mi date per spiegare Beuys, due ore, un mese, un anno?». Già, quanto
tempo ci vuole per avvicinarsi seriamente all’arte contemporanea? Cos’è la Merda
d’artista di Manzoni? Che senso hanno i suoi Achrome? Per non
parlare dell’orinatoio di Duchamp o del Cadau di Man Ray, il celeberrimo
ferro da stiro con i chiodi. Che orrore! Urla la gente, avendo in mente l’arte
perfetta e colma di grazia di Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Tintoretto.
Possibile che esistano personaggi come Michelangelo Pistoletto, Félix
González-Torres o, peggio ancora, Damien Hirst che con l’opera The Physical
Impossibility of Death in the Mind of Someone Living – titolo lungo quanto
emblematico – porta in scena (è il caso di dirlo) uno squalo immerso in una
soluzione di formaldeide, provocando lo sdegno di animalisti, benpensanti e
puritani dell’arte? Ma prima ancora si può andare da Giuseppe Capogrossi, Carla
Accardi, Lucio Fontana, Getulio Alviani, Edoardo Landi, Giulio Turcato, Achille
Perilli, Bernard Aubertin, César Baldaccini e un’infinità di altri artisti che
hanno creato un GAP non solo con l’arte classica, rinascimentale e moderna, ma
anche con l’arte contemporanea intesa come arte figurativa e mimetica. Bonalumi,
Burri, Calzolari, Castellani, Marchegiani, Griffa, Dova: una lama affilata e
acuminata che recide il cordone ombelicale con la tradizione, pur
riconoscendone il valore e l’inalienabile criticità di cui essi sono in qualche
modo debitori. Tagli, tele estroflesse, utilizzo di materiali poveri, tecniche
miste, studio del colore, della linea, trasposizione dei soggetti,
capovolgimento del piano di senso: tutto ciò fa rabbrividire chi fa la fila davanti
ai Musei Vaticani o agli Uffizi. Molti provano una strana sensazione di
malessere davanti alle carte di Kounellis o ad un’opera di Hartung. Non capiscono
il senso dei lavori geometrici di Mondrian – ok, sono gradevoli all’occhio, ma
qual è il senso? Così ritorna la frase…, quella frase che, con diverse
varianti, è sempre la stessa – Mio nipote, di sette anni, se si impegna riesce
a fare le stesse composizioni del pittore olandese. «Sradicare un pregiudizio è
doloroso come estrarre un nervo» affermava Primo Levi, e non si può certo
dargli torto. Misurarsi su un piano diverso dal proprio è difficile e,
soprattutto, può essere faticoso. Perché per capire che l’arte, oltre a essere
«emozione» è anche «linguaggio» occorre studio, impegno, abnegazione, elementi
che purtroppo vengono messi al confino, preferendo a essi l’immediatezza di una
fruizione estetizzante, che sembrerebbe raccontare qualcosa in modo semplice e
diretto. Ma che le opere di Giotto, Piero della Francesca o del Ghirlandaio
fossero «semplici» e «immediate» è tutto da dimostrare. Certo, il figurativo è
qualcosa che si vede chiaramente, di cui si ha l’impressione di poter capire
tutto e subito. Ma sarà davvero così? È così lineare e intuitiva la poesia di
Dante o Petrarca? E quella di Ariosto? Evidentemente, per molti la risposta è
affermativa. Se ci si ferma a «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai
per una selva oscura...» si può avere l’impressione (erronea) di «possedere» l’intera
Commedia dantesca, così, se ci si limita a godere della «sola» perfezione
estetica di un’immagine di Raffaello, si rischia di fermarsi in superficie. Gli
artisti sono figli del proprio tempo e utilizzano le idee, le tecniche e i
materiali di cui dispongono. Una tela estroflessa di Bonalumi era impensabile
nel Cinquecento, così come dipingere nella seconda metà del Novecento come
Caravaggio non avrebbe avuto più senso. Essere artista non significa essere
abile col pennello o con lo scalpello, così come non lo è il saper riprodurre
fedelmente un’opera del Mantegna o del Canaletto. Il Novecento è il secolo
delle idee e, come ha scritto Bracher, delle ideologie. Come spiegare un arazzo
di Boetti, artista che commissionava l’esecuzione materiale delle sue opere a
mani esperte che non erano le sue? Con l’idea. L’artista nel Novecento non è
più (o non solo) colui che è abile manualmente, ma è colui che ha l’idea – non
dimentichiamoci che idea deriva da êidos, la cui radice è «vedere».
L’artista è colui che vede ciò che gli altri non vedono, e lo vede prima, come
un veggente. L’artista precorre i tempi, ecco perché spesso l’arte non viene «capita»
proprio dai suoi contemporanei. Manet non fu capito, Van Gogh neanche, così
come Pissarro: erano troppo avanti, troppo distanti dal sentire comune del
tempo, troppo innovativi. Ognuno a suo modo aveva stravolto i canoni del tempo,
suscitando scandalo e incredulità. Se l’arte non crea rottura, non è arte ma
decorazione, abbellimento. Ma per la maggior parte degli individui ciò che non
è bello e piacevole non è arte e va censurata o, nel migliore dei casi, spinta
all’angolo. Ecco perché il Salon des Refusés impera ancora, minato di
tanto in tanto da qualche mosca bianca che rema controcorrente. Forse fra
cinquant’anni lo squalo di Hirst o la banana di Cattelan saranno riconosciute
come arte o forse no, ma sicuramente il futuro potrà riservare delle sorprese.
Nel frattempo che fare? Combattere contro i mulini a vento del disinteresse e del
pressapochismo del pubblico e di certa parte di addetti ai lavori (che avalla
il gusto comune), oppure lasciar perdere e godere, quasi in segreto, dell’arte?
L’unica risposta possibile è nella cultura: fare arte, parlare d’arte, implementare
le ore d’arte nelle scuole, destinare risorse umane e materiali che ruotano
intorno al mondo dell’arte e, soprattutto, studiare, studiare, studiare.